Il racconto del nostro viaggio in Giappone non può che iniziare dal Monte Fuji, non solo perché è stata la nostra prima tappa, ma anche e soprattutto perché è stata la nostra “impresa”. Non siamo né alpinisti né scalatori, non facciamo corsa in montagna, insomma siamo persone normali che amano di tanto in tanto fare un’escursione in montagna. Vi racconteremo la nostra esperienza e cercheremo di darvi qualche suggerimento.
Siamo partiti per la nostra scalata il giorno dopo l’arrivo a Tokyo, dopo un lungo volo intercontinentale ed una notte trascorsa nel Cabin Hotel dell’aeroporto. Non avendo molta esperienza ed essendo piuttosto stanchi del viaggio, abbiamo scelto lo Yoshida Trail, il percorso più battuto e più semplice dei quattro che permettono di raggiungere la cima del Fuji. Dopo un percorso in treno e bus di circa 3 ore, siamo arrivati alla Quinta Stazione, da dove appunto parte lo Yoshida Trail.
Lì nel piazzale della Quinta Stazione, gruppetti di giapponesi insaccati in k-way multicolore, immersi nella foschia e in una pioggerella fine fine; molti di loro hanno acquistato un Kongo-due prima di partire, un bastone che li accompagnerà nella scalata e che ad ogni stazione verrà pirografato. Ci fermiamo a pranzare in uno dei ristoranti presenti – più che altro una specie di tavola calda – e il curry rice che ci portano è a forma di vulcano. All’ingresso del sentiero, come corrispettivo al pagamento dell’ingresso al parco, ci regalano un amuleto di buon auspicio. Ci fermiamo al tempio, per la preghiera rituale, e iniziamo la salita.
Lì nel piazzale della Quinta Stazione, gruppetti di giapponesi insaccati in k-way multicolore, immersi nella foschia e in una pioggerella fine fine; molti di loro hanno acquistato un Kongo-due prima di partire, un bastone che li accompagnerà nella scalata e che ad ogni stazione verrà pirografato. Ci fermiamo a pranzare in uno dei ristoranti presenti – più che altro una specie di tavola calda – e il curry rice che ci portano è a forma di vulcano. All’ingresso del sentiero, come corrispettivo al pagamento dell’ingresso al parco, ci regalano un amuleto di buon auspicio. Ci fermiamo al tempio, per la preghiera rituale, e iniziamo la salita.
La prima parte del percorso, fino circa alla Sesta Stazione, scorre liscia sotto gli scarponcini, la pendenza è dolce e il sentiero piuttosto semplice.
Dalla Sesta Stazione la faccenda si fa più complicata: il sentiero diventa una sorta di pietraia vulcanica, la pendenza impenna rapidamente ed i mille metri di dislivello che ci separano dal nostro rifugio a 3400 metri sono una vera fatica. Presto superiamo le nuvole e lo sguardo al di sotto è magnifico: il Giappone giace ai nostri piedi, coperto di nubi, mentre noi, al di sopra, veniamo accolti dai raggi del sole. E finalmente la vediamo, la vetta.
La salita prosegue. Ad ogni stazione ci fermiamo per riposare un poco, per bere un Pocari (sacro Pocari!), per svuotare la vescica al modico costo di 200 yen; la stanchezza fa sembrare quelle baracche un po’ sgangherate come uno dei posti più accoglienti della terra. Continuiamo a salire. Verso sera il tramonto ci raggiunge durante la nostra scalata, tingendo il cielo di arancione e poi di tutti i toni del blu; la luce cala e il freddo inizia a farsi sentire mentre percorriamo gli ultimi metri di dislivello che ci separano dai 3400 m, circondati da giapponesi con torce frontali e bombolette di ossigeno (chissà). Siamo stanchi, esausti. Ma bene o male arriviamo: mangiamo rapidamente una cena di curry rice e hamburger e ce ne andiamo a dormire. Il “dormitorio” è una specie di piccolo incubo ad alta quota, un tavolaccio di legno a due piani su cui sono buttati senza soluzione di continuità sacchi a pelo e coperte e che, a mano a mano che la gente arriva, diventa una distesa di corpi dormienti russanti e accatastati. Davvero una esperienza poco gradevole e, malgrado la grande stanchezza, dormiamo molto poco a causa del continuo via-vai e di vicini di branda particolarmente molesti.
Dalla Sesta Stazione la faccenda si fa più complicata: il sentiero diventa una sorta di pietraia vulcanica, la pendenza impenna rapidamente ed i mille metri di dislivello che ci separano dal nostro rifugio a 3400 metri sono una vera fatica. Presto superiamo le nuvole e lo sguardo al di sotto è magnifico: il Giappone giace ai nostri piedi, coperto di nubi, mentre noi, al di sopra, veniamo accolti dai raggi del sole. E finalmente la vediamo, la vetta.
La salita prosegue. Ad ogni stazione ci fermiamo per riposare un poco, per bere un Pocari (sacro Pocari!), per svuotare la vescica al modico costo di 200 yen; la stanchezza fa sembrare quelle baracche un po’ sgangherate come uno dei posti più accoglienti della terra. Continuiamo a salire. Verso sera il tramonto ci raggiunge durante la nostra scalata, tingendo il cielo di arancione e poi di tutti i toni del blu; la luce cala e il freddo inizia a farsi sentire mentre percorriamo gli ultimi metri di dislivello che ci separano dai 3400 m, circondati da giapponesi con torce frontali e bombolette di ossigeno (chissà). Siamo stanchi, esausti. Ma bene o male arriviamo: mangiamo rapidamente una cena di curry rice e hamburger e ce ne andiamo a dormire. Il “dormitorio” è una specie di piccolo incubo ad alta quota, un tavolaccio di legno a due piani su cui sono buttati senza soluzione di continuità sacchi a pelo e coperte e che, a mano a mano che la gente arriva, diventa una distesa di corpi dormienti russanti e accatastati. Davvero una esperienza poco gradevole e, malgrado la grande stanchezza, dormiamo molto poco a causa del continuo via-vai e di vicini di branda particolarmente molesti.
La consuetudine sarebbe quella di svegliarsi qualche ora prima dell’alba e raggiungere la vetta in tempo per veder sbucare il sole all’orizzonte. Noi, però, che siamo un po’ sociopatici, preferiamo evitare il bagno di folla che sale alla vetta nella notte e ci godiamo l’alba da quota 3400 m, fuori dal nostro rifugio, senza quasi nessuno attorno, imbacuccati in berretto e guanti, prima di metterci in marcia per raggiungere anche noi la vetta. Durante quel dislivello di 376 metri restanti ci siamo più volte sentiti come nel film Everest (lo avete visto?): ci sentiamo ridicolmente lenti e pesanti, ogni passo costa molta più fatica del dovuto. Manco fossimo a 8000 metri; ma tant’è. A mano a mano che saliamo il vento si fa sentire, freddo e pungente, lo zaino pesante, il fiato corto.
Ma infine arriviamo: prima il torii con i leoni in pietra e infine la vetta. Solo nebbia tutto intorno e scarsa visibilità, ma è il traguardo e noi lo abbiamo raggiunto.
E poi la discesa, lunga e monotona, fino a valle, e il rientro in treno a Tokyo nel “nostro” ryokan (lo stesso di quattro anni fa).
Cosa dire di questa esperienza? La cosa più banale, ovvero che il famoso detto giapponese “chi scala il Monte Fuji una volta nella vita è un uomo saggio, chi lo scala due volte è un pazzo” è pura e sacra verità.
E’ stata una “once-in-a-lifetime experience”, la meraviglia di gettare uno sguardo in basso quando sei stremato dalla fatica è un’emozione incredibile e intensa, la soddisfazione di farcela ha il sapore di una vittoria ben più grande di quei 3776 metri.
Ma è stata anche un’esperienza faticosa, ben più di quanto ci avessero lasciato immaginare racconti online e guide turistiche. Certo, partire con il jet lag e un volo intercontinentale ancora addosso non è stata un’idea vincente (la logistica del viaggio non permetteva di fare altrimenti), ma indubbiamente non si tratta di un sentiero di montagna come altrove descritto. L’altitudine, pur non essendo esagerata, si fa comunque sentire ed è indispensabile essere ben equipaggiati, con scarponcini comodi e abbigliamento antipioggia. Noi abbiamo affittato l’attrezzatura (zaino da montagna, racchette, scarponi, abbigliamento antipioggia) tramite Kobe Outdoor, che ci ha fornito un servizio preciso e puntuale e attrezzatura di qualità: consigliatissimo. La sistemazione in rifugio è pessima e costosa (all’incirca 80€ a testa compresa la cena), pertanto consigliamo caldamente a chiunque voglia cimentarsi nella scalata di partire adeguatamente riposato e fare la scalata tutta insieme, evitando di pernottare in rifugio.
E’ stata una “once-in-a-lifetime experience”, la meraviglia di gettare uno sguardo in basso quando sei stremato dalla fatica è un’emozione incredibile e intensa, la soddisfazione di farcela ha il sapore di una vittoria ben più grande di quei 3776 metri.
Ma è stata anche un’esperienza faticosa, ben più di quanto ci avessero lasciato immaginare racconti online e guide turistiche. Certo, partire con il jet lag e un volo intercontinentale ancora addosso non è stata un’idea vincente (la logistica del viaggio non permetteva di fare altrimenti), ma indubbiamente non si tratta di un sentiero di montagna come altrove descritto. L’altitudine, pur non essendo esagerata, si fa comunque sentire ed è indispensabile essere ben equipaggiati, con scarponcini comodi e abbigliamento antipioggia. Noi abbiamo affittato l’attrezzatura (zaino da montagna, racchette, scarponi, abbigliamento antipioggia) tramite Kobe Outdoor, che ci ha fornito un servizio preciso e puntuale e attrezzatura di qualità: consigliatissimo. La sistemazione in rifugio è pessima e costosa (all’incirca 80€ a testa compresa la cena), pertanto consigliamo caldamente a chiunque voglia cimentarsi nella scalata di partire adeguatamente riposato e fare la scalata tutta insieme, evitando di pernottare in rifugio.
E ora lo chiamiamo anche noi Fujisan.
Qui il video:
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