Oggi è uscito sul tubo il secondo video dei Just in Trio
domenica 2 giugno 2019
lunedì 13 maggio 2019
Primo video dei Just in Trio
Con felicità ed orgoglio annuncio l'uscita del primo video dei Just in trio in Studio live session.
Registrato alla Kalakuta Recpublic Studio.
sabato 16 marzo 2019
Alle Svalbard in inverno (tratto da www.travelgudu.com)
Tratto da hppts://travelgudu.com
La nostra avventura artica. Isole Svalbard. Neve. Ghiaccio. Renne. Motoslitta. Capottamenti e gimcane. Purtroppo niente orsi polari. Ma l’aurora boreale sì, quella l’abbiamo vista.
La nostra Arctic Adventure è iniziata con un lungo viaggio per raggiungere queste sperdute isole nel Mar Glaciale Artico, le Isole Svalbard, 78° Nord, a circa 1000 km dal Polo Nord. Siamo partiti dall’aeroporto di Torino e dopo un breve scalo a Monaco, abbiamo trascorso la notte in un B&B vicino all’aeroporto di Oslo, da dove siamo ripartiti alla volta di Longyarbyen, il centro abitato più a nord dell’intero globo.
In avvicinamento all’isola di Spitsbergen (la più estesa dell’arcipelago), il cielo sereno ci ha permesso di innamorarci delle Svalbard al primo sguardo all’oblò dell’aereo: una distesa di ghiaccio e neve incontaminati, puri, immacolati, a perdita d’occhio, fino a perdersi nel mare, due soli colori a riempire gli occhi. Blu e bianco. Cielo e mare, ghiaccio e neve. Con una spolverata di deboli raggi solari qui e là.
’aeroporto di Longyarbyen è una piccola pista semighiacciata, la discesa dell’aereo ricorda incredibilmente i primi passi giù dalla scaletta a Windhoek. Se non fosse per i colori – così diversi -, per la densità dell’aria – così diversa – e sì, anche per la temperatura… Imbacuccati in cappuccio e guanti entriamo nel piccolo aeroporto, recuperiamo i nostri bagagli e aspettiamo il bus che traghetta i viaggiatori in corrispondenza di ogni atterraggio ed ogni partenza. Giungiamo al nostro hotel, il Coal Miner’s Cabins; impariamo subito a toglierci gli scarponi prima di entrare nei locali e scalzi ci abbarbichiamo sugli sgabelli per un pranzo a base di hamburger, pulled pork e patata al forno. Una volta rifocillati, siamo pronti ad avventurarci in città.
Alle isole Svalbard c’è una “zona di sicurezza” che corrisponde grossomodo ai confini della città di Longyarbyen oltre la quale non ci si può avventurare da soli per il rischio di imbattersi negli orsi polari. Oltre questo confine, ci si muove minuti di fucile e – per noi stranieri – di guide armate. Non sapremmo dire quanto reale sia il pericolo orsi, ma deve essere piuttosto tangibile visto che durante la nostra escursione le guide non permettevano che ci allontanassimo più di una manciata di metri da loro.
Abbiamo gironzolato nella cittadina, percorrendo a piedi i 2 km circa che separano il nostro hotel dal centro; abbiamo curiosato nei negozietti, comprato un bel maglione a prova di gelo norvegese e passeggiato su e giù. La sera, ceniamo da Huset Bistrò, un buon pasto a base di salmone, merluzzo e vino; ritorniamo alla base nel buio dell’artico, scrutando speranzosi un cielo che non ci regala luci se non quelle delle mille stelle che sbirciano in giù.
La mattina successiva conosciamo Løvert (perdonaci se non è così che si scrive), una delle due guide che ci condurranno lungo fiordi e ghiacciai per due giorni. Ci porta nel quartier generale della Basecamp Explorer dove conosciamo le altre persone che faranno parte della nostra spedizione: due inglesi – fratello e sorella, giunti alle Svalbard per il big birthday di lei (70 anni! che coraggio!), una coppia di spagnoli e la seconda guida, Matt, un ragazzo di Longyarbyen. Dopo un breve briefing, durante il quale veniamo a scoprire che molto probabilmente non sarà possibile raggiungere quella che avrebbe dovuto essere la nostra meta (Isfjord Radio a Cap Linné) per via delle condizioni meteo e durante il quale stabiliamo un piano alternativo, finalmente ci portano alle motoslitte. Qualche minuto per spiegarci il funzionamento e via!
Ci lasciamo Longyarbyen alle spalle, presto intorno a noi si vede solo il bianco della neve e delle renne. Inizialmente timidi, presto prendiamo confidenza con le nostre vetture. Indossiamo delle supertute che ci tengono belli caldi, i guanti sono spessi e per di più il manubrio della motoslitta è un po’ riscaldato, quindi il freddo non ci tocca.
Guidiamo per alcune ore, finché ci fermiamo accanto ad un capanno (la cui funzione è quella di rifugio “di sopravvivenza”) per pranzare. Dalla cassa caricata sulla slitta tirano fuori dei sacchettini arancioni di “curry cod”: riempiamo i nostri sacchettini liofilizzati di acqua calda e nel giro di pochi minuti ci pappiamo un pasto da esploratori nel mezzo del nulla dell’artico. Incredibile ma è buono, caldo, poi mangiamo della cioccolata e ci beviamo una bevanda calda e dolcissima a base di frutti rossi. In breve siamo rifocillati e pronti a ripartire. Le guide ci confermano che non potremo arrivare a Isfjord Radio per via delle condizioni del ghiaccio, per cui deviamo verso Barentsburg, dove arriviamo che ormai inizia a farsi buio. Non prima , però, che io mi capotti con la motoslitta! Non per imperizia alla guida (sia chiaro, eh!), ma a causa di un grosso lastrone di ghiaccio su cui il cingolo della mia motoslitta ha deciso di slittare irrimediabilmente fino a reincontrare, in maniera piuttosto traumatica, la neve gelata. Nessun danno comunque, solo una piccola ferita nell’orgoglio…
Barentsburg è un posto a dir poco deprimente. Affacciato su un meraviglioso fiordo ghiacciato, è un insediamento di minatori russi ed ucraini, dove abbiamo pernottato un un hotel incredibilmente accogliente e cenato socializzando con una tavolata di russi che ha condiviso con noi biscotti, cioccolatini e vodka. Dopo un bel sonno ristoratore, al mattino ci infiliamo di nuovo i nostri tutoni anti-freddo, casco, stivali e guantoni e ripartiamo. Sulla riva del fiordo ghiacciato, il sole fa capolino all’orizzonte, inondando il paesaggio artico con i suoi deboli raggi e colorando di sfumature pastello il paesaggio. Ci addentriamo nei fordi, attraversiamo specchi di mare ghiacciato, scodando con le nostre motoslitte ingovernabili sulla superficie scivolosa; anche le altre due donne del gruppo cadono – questo conferma il detto “donna al volante pericolo costante?”. Chi lo sa. Però ci divertiamo, tanto, tantissimo. Abbiamo qualche problema meccanico con una motoslitta, la abbandoniamo per un tratto e poi torniamo a prenderla e miracolosamente dopo questa pausa che le abbiamo concesso riparte come se niente fosse. Noi Gudu ormai dominiamo le nostre motoslitte; sfioriamo i 6o km orari nelle pianure deserte, ci infiliamo nei canaloni ghiacciati, ci arrampichiamo a tutta birra su ripidi pendii. Uno spasso. Al tramonto, ci troviamo sulla collina dietro a Longyarbyen, la luce si fa più tenue, rosa arancione e viola e regala uno sguardo bellissimo davanti a noi. L’ultimo tratto lo percorriamo che è buio. Arriviamo a destinazione, abbandoniamo le nostre tute e torniamo al Coal Miner’s per aspettare la navetta che ci riporterà in aeroporto (ahimè, troppo troppo breve il nostro viaggio artico). Ceniamo mangiando con le mani ottime costine con salsa BBQ. Ciondoliamo sulle poltroncine bevendo tè e riguardando video e foto. D’un tratto, compare Løvert: “have you seen the northern lights?”. In un attimo ci infiliamo gli scarponi e ci scaraventiamo fuori dal locale; corriamo per allontanarci dalle luci e alziamo gli occhi. E lì, in cielo, la vediamo: l’aurora boreale. Difficile descriverla. Una luce verde, a tratti tenue e a tratti intensissima, che danza nel cielo. Restiamo a testa in su, emozionati, con il fiato sospeso, finché il cielo torna buio. Ormai è ora di andare in aeroporto, ma colmi delle mille emozioni che l’Artico ci ha voluto regalare. Ultima ma non ultima, l’aurora boreale.
La nostra avventura artica. Isole Svalbard. Neve. Ghiaccio. Renne. Motoslitta. Capottamenti e gimcane. Purtroppo niente orsi polari. Ma l’aurora boreale sì, quella l’abbiamo vista.
La nostra Arctic Adventure è iniziata con un lungo viaggio per raggiungere queste sperdute isole nel Mar Glaciale Artico, le Isole Svalbard, 78° Nord, a circa 1000 km dal Polo Nord. Siamo partiti dall’aeroporto di Torino e dopo un breve scalo a Monaco, abbiamo trascorso la notte in un B&B vicino all’aeroporto di Oslo, da dove siamo ripartiti alla volta di Longyarbyen, il centro abitato più a nord dell’intero globo.
In avvicinamento all’isola di Spitsbergen (la più estesa dell’arcipelago), il cielo sereno ci ha permesso di innamorarci delle Svalbard al primo sguardo all’oblò dell’aereo: una distesa di ghiaccio e neve incontaminati, puri, immacolati, a perdita d’occhio, fino a perdersi nel mare, due soli colori a riempire gli occhi. Blu e bianco. Cielo e mare, ghiaccio e neve. Con una spolverata di deboli raggi solari qui e là.
’aeroporto di Longyarbyen è una piccola pista semighiacciata, la discesa dell’aereo ricorda incredibilmente i primi passi giù dalla scaletta a Windhoek. Se non fosse per i colori – così diversi -, per la densità dell’aria – così diversa – e sì, anche per la temperatura… Imbacuccati in cappuccio e guanti entriamo nel piccolo aeroporto, recuperiamo i nostri bagagli e aspettiamo il bus che traghetta i viaggiatori in corrispondenza di ogni atterraggio ed ogni partenza. Giungiamo al nostro hotel, il Coal Miner’s Cabins; impariamo subito a toglierci gli scarponi prima di entrare nei locali e scalzi ci abbarbichiamo sugli sgabelli per un pranzo a base di hamburger, pulled pork e patata al forno. Una volta rifocillati, siamo pronti ad avventurarci in città.
Alle isole Svalbard c’è una “zona di sicurezza” che corrisponde grossomodo ai confini della città di Longyarbyen oltre la quale non ci si può avventurare da soli per il rischio di imbattersi negli orsi polari. Oltre questo confine, ci si muove minuti di fucile e – per noi stranieri – di guide armate. Non sapremmo dire quanto reale sia il pericolo orsi, ma deve essere piuttosto tangibile visto che durante la nostra escursione le guide non permettevano che ci allontanassimo più di una manciata di metri da loro.
Abbiamo gironzolato nella cittadina, percorrendo a piedi i 2 km circa che separano il nostro hotel dal centro; abbiamo curiosato nei negozietti, comprato un bel maglione a prova di gelo norvegese e passeggiato su e giù. La sera, ceniamo da Huset Bistrò, un buon pasto a base di salmone, merluzzo e vino; ritorniamo alla base nel buio dell’artico, scrutando speranzosi un cielo che non ci regala luci se non quelle delle mille stelle che sbirciano in giù.
La mattina successiva conosciamo Løvert (perdonaci se non è così che si scrive), una delle due guide che ci condurranno lungo fiordi e ghiacciai per due giorni. Ci porta nel quartier generale della Basecamp Explorer dove conosciamo le altre persone che faranno parte della nostra spedizione: due inglesi – fratello e sorella, giunti alle Svalbard per il big birthday di lei (70 anni! che coraggio!), una coppia di spagnoli e la seconda guida, Matt, un ragazzo di Longyarbyen. Dopo un breve briefing, durante il quale veniamo a scoprire che molto probabilmente non sarà possibile raggiungere quella che avrebbe dovuto essere la nostra meta (Isfjord Radio a Cap Linné) per via delle condizioni meteo e durante il quale stabiliamo un piano alternativo, finalmente ci portano alle motoslitte. Qualche minuto per spiegarci il funzionamento e via!
Ci lasciamo Longyarbyen alle spalle, presto intorno a noi si vede solo il bianco della neve e delle renne. Inizialmente timidi, presto prendiamo confidenza con le nostre vetture. Indossiamo delle supertute che ci tengono belli caldi, i guanti sono spessi e per di più il manubrio della motoslitta è un po’ riscaldato, quindi il freddo non ci tocca.
Guidiamo per alcune ore, finché ci fermiamo accanto ad un capanno (la cui funzione è quella di rifugio “di sopravvivenza”) per pranzare. Dalla cassa caricata sulla slitta tirano fuori dei sacchettini arancioni di “curry cod”: riempiamo i nostri sacchettini liofilizzati di acqua calda e nel giro di pochi minuti ci pappiamo un pasto da esploratori nel mezzo del nulla dell’artico. Incredibile ma è buono, caldo, poi mangiamo della cioccolata e ci beviamo una bevanda calda e dolcissima a base di frutti rossi. In breve siamo rifocillati e pronti a ripartire. Le guide ci confermano che non potremo arrivare a Isfjord Radio per via delle condizioni del ghiaccio, per cui deviamo verso Barentsburg, dove arriviamo che ormai inizia a farsi buio. Non prima , però, che io mi capotti con la motoslitta! Non per imperizia alla guida (sia chiaro, eh!), ma a causa di un grosso lastrone di ghiaccio su cui il cingolo della mia motoslitta ha deciso di slittare irrimediabilmente fino a reincontrare, in maniera piuttosto traumatica, la neve gelata. Nessun danno comunque, solo una piccola ferita nell’orgoglio…
Barentsburg è un posto a dir poco deprimente. Affacciato su un meraviglioso fiordo ghiacciato, è un insediamento di minatori russi ed ucraini, dove abbiamo pernottato un un hotel incredibilmente accogliente e cenato socializzando con una tavolata di russi che ha condiviso con noi biscotti, cioccolatini e vodka. Dopo un bel sonno ristoratore, al mattino ci infiliamo di nuovo i nostri tutoni anti-freddo, casco, stivali e guantoni e ripartiamo. Sulla riva del fiordo ghiacciato, il sole fa capolino all’orizzonte, inondando il paesaggio artico con i suoi deboli raggi e colorando di sfumature pastello il paesaggio. Ci addentriamo nei fordi, attraversiamo specchi di mare ghiacciato, scodando con le nostre motoslitte ingovernabili sulla superficie scivolosa; anche le altre due donne del gruppo cadono – questo conferma il detto “donna al volante pericolo costante?”. Chi lo sa. Però ci divertiamo, tanto, tantissimo. Abbiamo qualche problema meccanico con una motoslitta, la abbandoniamo per un tratto e poi torniamo a prenderla e miracolosamente dopo questa pausa che le abbiamo concesso riparte come se niente fosse. Noi Gudu ormai dominiamo le nostre motoslitte; sfioriamo i 6o km orari nelle pianure deserte, ci infiliamo nei canaloni ghiacciati, ci arrampichiamo a tutta birra su ripidi pendii. Uno spasso. Al tramonto, ci troviamo sulla collina dietro a Longyarbyen, la luce si fa più tenue, rosa arancione e viola e regala uno sguardo bellissimo davanti a noi. L’ultimo tratto lo percorriamo che è buio. Arriviamo a destinazione, abbandoniamo le nostre tute e torniamo al Coal Miner’s per aspettare la navetta che ci riporterà in aeroporto (ahimè, troppo troppo breve il nostro viaggio artico). Ceniamo mangiando con le mani ottime costine con salsa BBQ. Ciondoliamo sulle poltroncine bevendo tè e riguardando video e foto. D’un tratto, compare Løvert: “have you seen the northern lights?”. In un attimo ci infiliamo gli scarponi e ci scaraventiamo fuori dal locale; corriamo per allontanarci dalle luci e alziamo gli occhi. E lì, in cielo, la vediamo: l’aurora boreale. Difficile descriverla. Una luce verde, a tratti tenue e a tratti intensissima, che danza nel cielo. Restiamo a testa in su, emozionati, con il fiato sospeso, finché il cielo torna buio. Ormai è ora di andare in aeroporto, ma colmi delle mille emozioni che l’Artico ci ha voluto regalare. Ultima ma non ultima, l’aurora boreale.
:::::::Info pratiche:::::::
Coordinate: 78°13′00″N 15°33′00″E
Coordinate: 78°13′00″N 15°33′00″E
Dormire:
Coal Miner’s Cabins. Stanzette piccole ma comodissime, bagni in comune ma in buon numero e puliti. Una sistemazione poco costosa tra quelle in città, ma di ottima qualità.
Coal Miner’s Cabins. Stanzette piccole ma comodissime, bagni in comune ma in buon numero e puliti. Una sistemazione poco costosa tra quelle in città, ma di ottima qualità.
Mangiare:
Coal Miner’s Cabins Bar & Grill: hamburgeria, piatti semplici ma gustosi; da non perdere la patata al forno e la birra made in Svalbard.
Huset Bistrò: piacevole l’atmosfera, buono e un po’ ricercato il cibo, altrettanto il vino, servizio cortese e attento.
Red Bear Pub & Brewer: pareti stracolme di ogni assurdità (compresi parabrezza di motoslitte e telefono vecchio stile che suona ogni tot), un grosso orso rosso in un angolo a salutarvi; questo pub nel bel mezzo del niente rappresenta ottimamente l’atmosfera assurda di questo avamposto minerario che è Barentsburg.
Coal Miner’s Cabins Bar & Grill: hamburgeria, piatti semplici ma gustosi; da non perdere la patata al forno e la birra made in Svalbard.
Huset Bistrò: piacevole l’atmosfera, buono e un po’ ricercato il cibo, altrettanto il vino, servizio cortese e attento.
Red Bear Pub & Brewer: pareti stracolme di ogni assurdità (compresi parabrezza di motoslitte e telefono vecchio stile che suona ogni tot), un grosso orso rosso in un angolo a salutarvi; questo pub nel bel mezzo del niente rappresenta ottimamente l’atmosfera assurda di questo avamposto minerario che è Barentsburg.
Escursioni:
Basecamp Explorer Spitsbergen: ottime guide, perfettamente in grado di adattare l’escursione ad ogni necessità, preparate e simpatiche; buona organizzazione, forniscono tutta l’attrezzatura di cui si può aver bisogno. Costoso, ma sono stati soldi ben spesi. Tra l’altro, una parte della quota è destinata all’abbattimento delle emissioni di CO2, e vengono reinvestiti in un progetto di riforestazione in Kenya. Perché viaggiare ecosostenibile è ancora più bello.
Basecamp Explorer Spitsbergen: ottime guide, perfettamente in grado di adattare l’escursione ad ogni necessità, preparate e simpatiche; buona organizzazione, forniscono tutta l’attrezzatura di cui si può aver bisogno. Costoso, ma sono stati soldi ben spesi. Tra l’altro, una parte della quota è destinata all’abbattimento delle emissioni di CO2, e vengono reinvestiti in un progetto di riforestazione in Kenya. Perché viaggiare ecosostenibile è ancora più bello.
Pensieri sparsi:
Essere nel borgo abitato più a Nord del mondo. Camminare, guardare, annusare e respirare il sole all’orizzonte.
Guardare fuori dalla finestra bevendo birra artigianale e vedere una renna che bruca.
Togliersi le scarpe all’ingresso prima di entrare in ogni locale e sentirsi parte di una bizzarra comunità, quasi elitaria, di avventurieri, viaggiatori, sommelier di attimi di vita.
Sentirsi vecchi e giovani allo stesso tempo.
Abitudini diverse che ti fanno sentire però più a casa di molte di quelle che conosci da sempre.
Sostare per la notte in avamposti sconosciuti alla maggior parte del mondo eppure tappe obbligate e di culto per gli avventurieri.
Pisciare su di un ghiacciaio.
Guardare di notte il cielo che si colora e danza e canta come seguendo un indecifrabile e segretissimo scopo.
Le manopole riscaldate della motoslitta.
Il piacevole vizio dei popoli del nordici di riempire i bicchieri da vino fino all’orlo.Passeggiare nel mezzo della notte artica.
La guida che ti fa cenno che è il tuo turno di superare un passo difficile, l’adrenalina, la mano che trema un po’ sul manubrio ed il sorriso sulle labbra.
Essere nel borgo abitato più a Nord del mondo. Camminare, guardare, annusare e respirare il sole all’orizzonte.
Guardare fuori dalla finestra bevendo birra artigianale e vedere una renna che bruca.
Togliersi le scarpe all’ingresso prima di entrare in ogni locale e sentirsi parte di una bizzarra comunità, quasi elitaria, di avventurieri, viaggiatori, sommelier di attimi di vita.
Sentirsi vecchi e giovani allo stesso tempo.
Abitudini diverse che ti fanno sentire però più a casa di molte di quelle che conosci da sempre.
Sostare per la notte in avamposti sconosciuti alla maggior parte del mondo eppure tappe obbligate e di culto per gli avventurieri.
Pisciare su di un ghiacciaio.
Guardare di notte il cielo che si colora e danza e canta come seguendo un indecifrabile e segretissimo scopo.
Le manopole riscaldate della motoslitta.
Il piacevole vizio dei popoli del nordici di riempire i bicchieri da vino fino all’orlo.Passeggiare nel mezzo della notte artica.
La guida che ti fa cenno che è il tuo turno di superare un passo difficile, l’adrenalina, la mano che trema un po’ sul manubrio ed il sorriso sulle labbra.
Qui il video della nostra Arctic Adventure direttamente dal canale You Tube – enjoy!
mercoledì 13 marzo 2019
Cose tipiche (e bizzarre) dei Giapponesi di cui non potrete più fare a meno
Tratto da www.travelgudu.com
I Giapponesi sono un popolo tecnologico e pieno di inventiva – lo sappiamo tutti. Hanno quella creatività un po’ astrusa che li porta sempre un passo avanti agli altri. Hanno quel lampo di genio che ti fa restare a bocca aperta e dire “no, ma come gli è venuto in mente?!?” e un istante dopo “come potevo vivere senza!”.
Ebbene: questa è la nostra personalissima top ten di cose tipicamente ed assurdamente nipponiche a cui ci siamo abituati in un baleno e di cui sentiamo disperatamente la mancanza ora che siamo in Occidente. Enjoy!
Ebbene: questa è la nostra personalissima top ten di cose tipicamente ed assurdamente nipponiche a cui ci siamo abituati in un baleno e di cui sentiamo disperatamente la mancanza ora che siamo in Occidente. Enjoy!
1 – I konbini
Ah come ci manca il konbini! Per dirla semplice, il konbini è un supermercato, un “convenience-store”. Ma ovviamente no, non si può farla semplice. Perché sono nippo e al konbini ci puoi fare di tutto: la classica spesa, pranzare, prendere il caffè, comprare le mutande o qualche gadget tecnologico, spedire lettere, prelevare al bancomat, recuperare i bagagli, fare fotocopie, e chi più ne ha più ne metta! Konbini mon amour.
2 – I WC super-tecnologici
Ammettetelo: avrete guardato anche voi con aria incuriosita e diffidente quelle tazze super accessoriate, dicendovi che – da bravi italiani – finché avete il bidet non serve tutta sta plancia di pulsanti e sto tripudio di fontanelle. Beh, alla prima – ehm – funzione corporale in terra nipponica dovrete ricredervi. Intanto c’è la piacevole funzione di “riscaldamento del sedile”, utile in inverno (o quando si è febbricitanti e piuttosto che poggiare le chiappe sulla tazza ghiacciata la fareste nel pappagallo for ever). E poi la funzione “copri-rumore”, che crea una sorta di brusio di fondo o una musica che vi farà subito sentire come se non foste in un bagno pubblico (sì, anche e soprattutto nei bagni pubblici ci sono i wc futuristici!). E infine: la funzione bidet, versione donna, uomo e versione posteriore, con acqua miscelabile caldo/freddo a vostro gusto. No, sedervi sulla tazza di casa non sarà più la stessa cosa.
3 – I distributori automatici ovunque e le bevande improbabili e addictive
Ragazzi qua il sottotitolo è semplice: POCARI SWEAT! Ci siamo imbattuti in questa apparentemente anonima bottiglietta dall’etichetta blu e bianca nel 2013, quando Futami Hayase, la ragazza che per imparare l’inglese ci ha fatto da guida volontaria a Tokyo, ci ha consigliato di comprarne uno. Amore a primo sorso. Dipendenza +++. Mentre ne scriviamo abbiamo la bavetta stile Homer Simpson. Da quel momento, il Pocari ha accompagnato ogni escursione, ogni passeggiata, ogni viaggio in shinkansen, insomma: ogni istante.
E i distributori: ovunque, agli angoli delle strade, nelle stazioni, sotto i cavalcavia, nelle zone turistiche e non turistiche. Una garanzia. Stracolmi di bevande colorate e per lo più incomprensibili, sempre puliti, luminosi, vi fanno l’occhiolino sotto il caldo nipponico.
E i distributori: ovunque, agli angoli delle strade, nelle stazioni, sotto i cavalcavia, nelle zone turistiche e non turistiche. Una garanzia. Stracolmi di bevande colorate e per lo più incomprensibili, sempre puliti, luminosi, vi fanno l’occhiolino sotto il caldo nipponico.
4 – Lo yukata
A dirla tutta, lo yukata è un indumento tradizionale ma informale, di cotone, che viene indossato soprattutto in estate (è quello che, probabilmente, nell’immaginario occidentale viene identificato come kimono, che invece è un indumento formale, per le “grandi occasioni”). Ma lo yukata è anche – e soprattutto – una sorta di vestaglia che troverete nei ryokan, da indossare dopo il bagno nell’onsen. Se all’inizio vi sentirete un pelino imbarazzati a scendere in vestaglia per la cena kaiseki servita nel vostro ryokan tradizionale, presto questo indumento fresco e semplice diventerà il vostro migliore amico.
5 – I programmi TV demenziali
Immaginatevi sdraiati sul vostro tatami, appena usciti dall’onsen, con addosso lo yukata, prendere in mano il telecomando più come gesto abituale che per vedere davvero qualcosa – in fondo la tv parlerà giapponese, no? E poi pigiate on e venite scaraventati in un universo parallelo di assurdità così impensabili che non riuscite più a pigiare off. Tra i nostri preferiti: le interviste/presa in giro a chi è appena atterrato in aeroporto; le gare di “corsa” tra cuccioli di cane incredibilmente stupidi e indisciplinati; l’intervista ai due italiani nerd giunti a Tokyo per una gara di modellismo robot (e hanno anche vinto!); la trasmissione real time che segue poliziotti che arrestano ubriachi. Scendete in yukata e calzini al distributore del ryokan, prendetevi una tazza di noodles istantanei ed è fatta: siete nippo anche voi!
6 – Piedi scalzi, tatami e futon
Probabilmente non tutti sono amanti dello stare per terra quanto me, che viaggio scalza per casa e mi corico sul nudo pavimento accanto alla stufa. Senza dubbio i Giapponesi lo sono. Togliersi le scarpe prima di salire sul tatami ed entrare in una casa (o in alcuni ristoranti) è un rito, non solo un gesto di educazione: lasciando le scarpe sulla soglia, ci si “sveste” dell’esterno per entrare in una dimensione più intima. Camminare sul tatami che non fa rumore, strusciando un po’ i piedi, come abbiamo visto fare nei manga, a piccoli passetti. Srotolare ogni sera il proprio futon a terra – parrebbe scomodo e invece è incredibilmente funzionale: nei micro-appartamenti giapponesi si risparmia molto spazio riponendo il materasso nell’apposito armadio. Per non parlare dell’incredibile comodità di riposare a terra sul doppio strato di tatami e futon. Sì, è un’altra di quelle cose che, tornati in Patria, cercherete disperatamente di replicare.
7 – Le macchine-scatoletta
Piccole macchinette corte e un po’ più alte rispetto a quelle occidentali, super comode, super spaziose, super funzionali. La nostra preferita senza dubbio la Lapin. Belle da guidare e belle da vedere in giro per la città.
8 – I chioschi mono-piatto
Disseminati ovunque, in città e in campagna, questi banchetti o micro-locali offrono sostanzialmente un singolo piatto o, nella migliore delle ipotesi, qualche variazione di un singolo piatto. Dal carretto che vende ananas ghiacciato a bordo strada al soba-shop della nonnina di Magome, dal locale dove accompagnano yakitori e origami al negozio che vende succo di arancia allo stato solido o liquido (per il gassoso si stanno attrezzando): questi punti di prima necessità vi saranno preziosi.
9 – Gli ombrelli, con la pioggia e con il sole
Appena si arriva in Giappone viene forse da chiedersi come mai, senza una nuvola in cielo, tutti ma proprio tutti abbiano appeso al braccio un ombrello. Di quelli anonimi pure, mica una roba modaiola: media dimensione, trasparente bianco. Tutti con lo stesso ombrello. Nel giro di un giorno al massimo si chiarisce il perché: gli acquazzoni in Giappone (almeno nel periodo estivo in cui siamo andati noi) sono frequentissimi. Saggi, questi Giapponesi, anche perché fuori dai locali o dagli uffici ognuno ripone l’ombrello e all’uscita non importa quello che prendi, tanto sono tutti uguali! Come eliminare i furti 2.0. E poi ci sono gli altri ombrelli, quelli fashion, quelli glamour. Che mica li usano per la pioggia, quelli, ma per pararsi dal sole. Colorati, ricamati, pizzosi, se ne fanno vezzo donne e uomini. Très chic.
10 – Le riproduzioni in plastica dei piatti, fuori dei ristoranti
Beh, di queste non sentiamo la mancanza. Kitsch all’inverosimile, si riveleranno presto preziosissimi quando dovrete ordinare un pasto interfacciandovi con gente che non capisce neppure quando scandite “two-ya-ki-to-ri” indicando 2 con le dita (ndr yakitori è una parola giapponese, sono degli spiedini). E detto da una che aborre i menù con le foto dalla notte dei tempi (meglio digiunare che mangiarci), potete crederci: dopo un po’ sarete stanchi di gesticolare e balbettare sillabe anglo-nipponiche e ringrazierete di poter ordinare additando.
Ora non vi resta che partire e verificare con i vostri occhi!
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