Ecco il video del viaggio in Bhutan.
Non potendo riprendere l'interno dei templi e non potendo trasportare su pellicola l'energia e le atmosfere, il video non rende molto. In ogni caso eccolo.
Buona visione
martedì 27 ottobre 2015
giovedì 17 settembre 2015
The Gudu's Kathmandu experience
Ad essere sincero inizialmente non avevo in programma questo post poiché la visita di Kathmandu a caldo mi aveva deluso molto.
Dopo il terremoto però, vedendo distrutti luoghi ed opere dove io e la Vigi siamo stati, mi è venuta voglia di tenermi qualcosa di scritto che mi aiutasse a ricordare quei luoghi.
Caduta nel Buonismo? Naaaaa... io ed il buonismo abbiamo preso due strade separate alla nascita... ho solo voglia di tenermi un po' più strette delle cose che non ci sono più.
Già all'andata verso il Bhutan ci eravamo fermati mezza giornata a Kathmandu, stupendoci per la quantità di persone, di macerie (non c'era ancora stato il terremoto) e sporcizia presenti e questo si confermò anche al ritorno.
Prima che la guida venisse a prenderci, avevamo una mattinata libera e ne approfittammo per giracchiare nella zona dei negozietti chiamata Thamel. La cosa pazzesca a di questo quartier è che si può trovare qualunque cosa inerente l'escursionismo, ma proprio qualsiasi cosa... purché tarocca.
Le vie di Thamel erano affollatissime di nepalesi, ma anche di occidentali che girovagavano in cerca di acquisti a basso costo.
Devo dire che, dopo aver speso un sacco di soldi per comprarci le giacche da escursionismo della Nord Face, vedere le stesse giacche in vetrina al prezzo di 15, 20, 30 euro è stato uno shock.
La cosa pazzesca poi è che questi indumenti tecnici erano fatti a mano e quindi di alta qualità, forse più alta di quelle che portavamo addosso.
La seconda cosa che mi colpi fu il traffico. Un traffico totalmente irregolare dove auto, moto, biciclette e pedoni si muovevano senza regole e senza "corsie dedicate", tutti facendo un gran rumore ed incredibilmente senza incidenti (nemmeno piccoli)... tutti quel casino e le automobili non avevano le tipiche righe e bollature che si possono trovare in qualsiasi città europea.
Terza cosa a colpirmi (che in generale mi colpiva sempre quando ero in oriente) fu la sensazione di sicurezza anche quando noi si era soli in mezzo alla folla autoctona in una zona povera.
Girando per i vicoli stretti ed affollati non mi sono mai sentito in pericolo come è avvenuto spesso e volentieri in Africa od in certe zone d'Europa (Francia compresa, anzi Francia soprattutto).
L'impressione che ho avuto dei Nepalesi è che fossero gente che a tutti i costi volessero vendere qualcosa, ma ben lontani dall'idea di microcriminalità.
Un'altra cosa che capii subito, anche solo girando per le viuzze, fu la commistione delle due principali religioni del paese Buddismo ed Induismo: l'idea che ho avuto è che ogni nepalese avesse una preferenza (seguita per i matrimoni e funerali), ma che tutti poi seguissero un "dettame misto" per quel che riguarda le abitudini, le tradizioni ed il pregare; di sicuro c'era un rispetto reciproco altissimo fra i credenti delle due religioni.
A Kathmandu abbiamo passato in tutto tre giorni.
Siamo stati quasi sempre con una guida bizzarra che parlava italiano benissimo e che, per qualsiasi cosa ci mostrasse, ci chiedeva se in Italia c'era... poco ci mancava che ci
chiedesse se avessimo un Everest anche in Italia.
Kathmandu più che una città è una valle: la Valle di Kathmandu per l'appunto ed è divisa in tanti agglomerati urbani riuniti in un'unica identità che però cambia faccia continuamente.
Non starò a descrivere le cose in ordine cronologico od a precisare cosa di preciso abbiamo fatto ogni giorno... vorrei solo descrivere le cose che abbiamo visto e vissuto in disordine totale... come Kathmandu.
Però... però... ritengo importante specificare che la prima cosa che andammo a visitare fu il tempio di Swayambhunath anche detto "Il tempio delle scimmie"; poiché quello fu il nostro primo vero incontro/scontro con alcune caratteristiche di Kathmandu che hanno di molto influenzato il nostro
"porci di fronte alla città".
Mentre l'autista si faceva spazio nel traffico suonando il clacson con la ritmicità di un jazzista smanettone, la guida ci spiegò che lo stato aveva deciso di allargare le strade ed allora semplicemente aveva tagliato a metà le case per far passare la strada... e non era un modo di dire... le case erano letteralmente "segate" a metà... stanze che ad un certo punto cadevano nel vuoto, cavi elettrici che penzolavano e macerie ovunque.
Il tempio delle scimmie non fu il posto migliore da cui iniziare la visita di Kathmandu essendo noi appena tornati dagli spazi desolati e sconfinati del Bhutan.
Il tempio era sulla cima di una collina da cui si godeva una impressionante vista sulla città e sui suoi milioni di casupole ammassate a caso.
Ovunque c'era folla e ressa, non ci si poteva muovere senza essere toccati da persone, scimmie, cani, colombi e qualche mucca... soprattutto scimmie (lo dice anche il soprannome del luogo)... scimme per lo più zozzissime spelacchiate e cattive come cariatidi mestruate.
Non c'era parte del tempio che non fosse ricoperto di un misto di escrementi vari, offerte in cibo ed addobbi religiosi. Inutile dire che l'odore non era dei più piacevoli, anche se dopo qualche minuto ci si faceva l'abitudine.
La guida ci indicò della gente seduta a terra (in mezzo agli escrementi) che cercava di mangiare lottando con le scimmie per il possesso di ogni boccone e ci spiegò che facevano un "Pic-nic religioso". Ricordo di aver pensato due cose:
1) In effetti solo una divinità potrebbe evitargli un 200-300 infezioni e/o intossicazioni diverse.
2) Quanto è forte il corpo umano per poter mangiare in mezzo agli escrementi e sopravvivere.
Fu impossibile godersi questa visita a causa del putridume generale e molto probabilmente dal contrasto di quello che avevamo vissuto in Bhutan con la situazione attuale.
In generale abbiamo visitato luoghi molto interessanti e monumenti bellissimi, fra cui:
- Lo Stupa di Boudhanath che è lo Stupa più grande al mondo dove sono teoricamente preservate le ossa di Bhudda, un luogo immenso di cui abbiamo colto la grandezza solo osservandolo
da una posizione sopraelevata.
- Il tempio induista più famoso della Città dove siamo giunti a sera con un'atmosfera molto marcata ed un'energia molto forte, pieno di caproni lasciati nel cortile come omaggio agli dei e statue a dir poco spaventose (mica tanto simpatici gli dei indù a vederli così).
- Il tempio di Pashupatinath che è spettacolare a dir poco dove abbiamo anche assistito al funerale di un importante militare con tanto di pira funebre e mio quasi svenimento.
- I sobborghi di Bhaktapur e Pathan con quelle atmosfere fuori dal mondo, le loro viuzze e le loro incrdibili Durbar Square. Sculture in Tek e pietra a dir poco incredibili, templi, torri, palazzi storici in ogni angolo.
L'impressione che ho avuto è di un'umanità che prima ha creato queste opere incredibili e bellissime e poi è decaduta (forse per il sovraffollamento ed il turismo) trasformando tutto in un immondezzaio turistico.
Rivedendo le foto, sono rimasto spesso a bocca aperta di fronte a certe opere chiedendomi come mai sul momento non avevo captato la loro energia... ma come potevamo ampliare i nostri sensi interiori se manco riuscivamo a fare una foto ad una statua senza avere nell'inquadratura almeno 20 persone schiamazzanti?
Troppa gente in generale e troppi turisti hanno rovinato l'atmosfera, troppa incuria ha reso molte opere dei semplici cessi per piccioni ed altri animali.
Noi non abbiamo visitato il Nepal, ma solo Kathmandu e devo dire che potrebbe essere un posto davvero incredibile, pazzesco e spirituale (come forse era negli anni '60), ma purtroppo
ora come ora è poco più di una semplice città orientale che brama all'occidente sporca, sovraffollata ed inquinata.
Veniamo ora alla sezione "Prodotti tipici".
La guida ci spiegò che erano solo 3 i veri prodotti tipici del Nepal: le campane tibetane (che si chiamano Tibetane ma sono state, a suo dire, inventate in Nepal),
Le sciarpe in cashmere ed i Mandala.
Visitammo i migliori e più originali (secondo la guida) laboratori di queste tre arti.
In effetti per raggiungere alcuni di questi laboratori dovemmo infilarci in viuzze strette e minimamente lontane dal flusso di turisti o richiedere l'ingresso alle zone riservate di certi negozi che da fuori sembravano dedicati solo al più becero turismo di massa, ma che all'interno erano un dedalo di stanze e microscopici laboratori.
Visitammo la scuola di mandala dove lavoravano 7 od 8 (non ricordo) dei 14 migliori maestri di mandala al mondo. Questi 14 erano uomini che avevano fatto il percorso sacro buddista ovvero erano stati 7 anni, 7 mesi, 7 giorni, 7 ore e 7 minuti rinchiusi in una stanza a meditare o fare mandala
e poi erano tornati alla vita "normale" diventano maestri in questa incredibile arte dove si arriva ad usare un singolo pelo di animale come pennello.
Inutile dire quanto siano incredibili e belli i mandala; osservandoli a lungo si viene rapiti e portati nei meandri del nostro spirito; non ci si stanca mai di guardarli, anzi, più li si guarda e più si è rapiti.
Esistono solo 8 tipi di mandala, 7 di origini mistiche e quindi perse nel tempo ed uno creato dal Dalai Lama per aiutare le persone a trovare serenità e ritrovare se stessi e la propria via (fu quello che acquistammo).
Visitammo un artigiano delle campane tibetane che ci fece provare gli effetti ed i suoni pazzeschi di questi oggetti. Campane costruite con i dettami sacri mediante l'unione di 7 metalli con una lavorazione molto particolare.
Potemmo anche ascoltare il suono di una "Campana della luna" ovvero di una campana tibetana lavorata solo durante la luna piena... e devo dire che il suono era ancora più pazzesco
di tutte le altre.
Come sempre cercammo una campana che "ci parlasse" per acquistarla e portarla via.
Visitammo diversi artigiani del cashmere.
Ci eravamo ripromessi quantomeno di resistere a quella spesa, ma alla fine io cedetti acquistando una sciarpa... ma chiunque, immergendo la faccia il quel tessuto così leggero, così morbido e così caldo si sarebbe fatto avvincere.
E come sono i Nepalesi?
A dir poco adorabili. Gentilissimi e sempre sorridenti.
Per le strade, quando suonavano continuamente il clacson, lo facevano solo per palesare la loro presenza ad aiutare i vicini a muoversi... non c'era cattiveria come nelle città occidentali... si suonavano e poi si sorridevano.
I venditori provavano sempre a vendere qualcosa, ma non erano mai insistenti e non si imbronciavano se non si comprava nulla.
E la religione?
Come ho già scritto le due religioni principali tendono a fondersi insieme.
Del buddhismo ho parlato ampiamente nel Gudu's nippo experience ed ancor più nel Gudu's Bhutan experience.
Questo è stato invece il mio primo approccio con l'induismo e, fra le statue paurose, i sacrifici animali ed i rumori che si sentono nelle zone di preghiera, devo dire che non ho provato molta simpatia per le loro usanze.
Ed il cibo nepalese?
Buono anche se molto "basic".
Una sera fummo portati in un ristorante tipico nepalese dove mangiammo quantità esagerate di cibo tipico osservando danzatrici di danze popolari esibirsi nelle danze tradizionali delle varie zone del Nepal.
Un cibo speziato, ma leggero... non molto ricercato e dai sapori diretti e genuini... un po' come i nepalesi. Molta verdura, molto riso e molte spezie.
Ebbi anche il piacere di provare un liquore locale di cui non ricordo ne il nome ne la composizione... molto slavato e con poco carattere, ma al momento "ci stava bene".
Temo di non avere altre cose da dire, lascio la parola alle fotografie.
Spesso ci siamo chiesti se la nostra guida, la ragazza che ci trasportava "da" e "per" l'aeroporto ed il giovincello che ci aveva intrattenuto durante la cena fossero ancora vivi, se l'agenzia a cui ci siamo appoggiati esistesse ancora.
Chissà... non ho provato simpatia per la città di Kathmandu, ma ho provato tantissima simpatia per i nepalesi.
Dopo il terremoto però, vedendo distrutti luoghi ed opere dove io e la Vigi siamo stati, mi è venuta voglia di tenermi qualcosa di scritto che mi aiutasse a ricordare quei luoghi.
Caduta nel Buonismo? Naaaaa... io ed il buonismo abbiamo preso due strade separate alla nascita... ho solo voglia di tenermi un po' più strette delle cose che non ci sono più.
Già all'andata verso il Bhutan ci eravamo fermati mezza giornata a Kathmandu, stupendoci per la quantità di persone, di macerie (non c'era ancora stato il terremoto) e sporcizia presenti e questo si confermò anche al ritorno.
Prima che la guida venisse a prenderci, avevamo una mattinata libera e ne approfittammo per giracchiare nella zona dei negozietti chiamata Thamel. La cosa pazzesca a di questo quartier è che si può trovare qualunque cosa inerente l'escursionismo, ma proprio qualsiasi cosa... purché tarocca.
Le vie di Thamel erano affollatissime di nepalesi, ma anche di occidentali che girovagavano in cerca di acquisti a basso costo.
Devo dire che, dopo aver speso un sacco di soldi per comprarci le giacche da escursionismo della Nord Face, vedere le stesse giacche in vetrina al prezzo di 15, 20, 30 euro è stato uno shock.
La cosa pazzesca poi è che questi indumenti tecnici erano fatti a mano e quindi di alta qualità, forse più alta di quelle che portavamo addosso.
La seconda cosa che mi colpi fu il traffico. Un traffico totalmente irregolare dove auto, moto, biciclette e pedoni si muovevano senza regole e senza "corsie dedicate", tutti facendo un gran rumore ed incredibilmente senza incidenti (nemmeno piccoli)... tutti quel casino e le automobili non avevano le tipiche righe e bollature che si possono trovare in qualsiasi città europea.
Terza cosa a colpirmi (che in generale mi colpiva sempre quando ero in oriente) fu la sensazione di sicurezza anche quando noi si era soli in mezzo alla folla autoctona in una zona povera.
Girando per i vicoli stretti ed affollati non mi sono mai sentito in pericolo come è avvenuto spesso e volentieri in Africa od in certe zone d'Europa (Francia compresa, anzi Francia soprattutto).
L'impressione che ho avuto dei Nepalesi è che fossero gente che a tutti i costi volessero vendere qualcosa, ma ben lontani dall'idea di microcriminalità.
Un'altra cosa che capii subito, anche solo girando per le viuzze, fu la commistione delle due principali religioni del paese Buddismo ed Induismo: l'idea che ho avuto è che ogni nepalese avesse una preferenza (seguita per i matrimoni e funerali), ma che tutti poi seguissero un "dettame misto" per quel che riguarda le abitudini, le tradizioni ed il pregare; di sicuro c'era un rispetto reciproco altissimo fra i credenti delle due religioni.
A Kathmandu abbiamo passato in tutto tre giorni.
Siamo stati quasi sempre con una guida bizzarra che parlava italiano benissimo e che, per qualsiasi cosa ci mostrasse, ci chiedeva se in Italia c'era... poco ci mancava che ci
chiedesse se avessimo un Everest anche in Italia.
Kathmandu più che una città è una valle: la Valle di Kathmandu per l'appunto ed è divisa in tanti agglomerati urbani riuniti in un'unica identità che però cambia faccia continuamente.
Non starò a descrivere le cose in ordine cronologico od a precisare cosa di preciso abbiamo fatto ogni giorno... vorrei solo descrivere le cose che abbiamo visto e vissuto in disordine totale... come Kathmandu.
Però... però... ritengo importante specificare che la prima cosa che andammo a visitare fu il tempio di Swayambhunath anche detto "Il tempio delle scimmie"; poiché quello fu il nostro primo vero incontro/scontro con alcune caratteristiche di Kathmandu che hanno di molto influenzato il nostro
"porci di fronte alla città".
Mentre l'autista si faceva spazio nel traffico suonando il clacson con la ritmicità di un jazzista smanettone, la guida ci spiegò che lo stato aveva deciso di allargare le strade ed allora semplicemente aveva tagliato a metà le case per far passare la strada... e non era un modo di dire... le case erano letteralmente "segate" a metà... stanze che ad un certo punto cadevano nel vuoto, cavi elettrici che penzolavano e macerie ovunque.
Il tempio delle scimmie non fu il posto migliore da cui iniziare la visita di Kathmandu essendo noi appena tornati dagli spazi desolati e sconfinati del Bhutan.
Il tempio era sulla cima di una collina da cui si godeva una impressionante vista sulla città e sui suoi milioni di casupole ammassate a caso.
Ovunque c'era folla e ressa, non ci si poteva muovere senza essere toccati da persone, scimmie, cani, colombi e qualche mucca... soprattutto scimmie (lo dice anche il soprannome del luogo)... scimme per lo più zozzissime spelacchiate e cattive come cariatidi mestruate.
Non c'era parte del tempio che non fosse ricoperto di un misto di escrementi vari, offerte in cibo ed addobbi religiosi. Inutile dire che l'odore non era dei più piacevoli, anche se dopo qualche minuto ci si faceva l'abitudine.
La guida ci indicò della gente seduta a terra (in mezzo agli escrementi) che cercava di mangiare lottando con le scimmie per il possesso di ogni boccone e ci spiegò che facevano un "Pic-nic religioso". Ricordo di aver pensato due cose:
1) In effetti solo una divinità potrebbe evitargli un 200-300 infezioni e/o intossicazioni diverse.
2) Quanto è forte il corpo umano per poter mangiare in mezzo agli escrementi e sopravvivere.
Fu impossibile godersi questa visita a causa del putridume generale e molto probabilmente dal contrasto di quello che avevamo vissuto in Bhutan con la situazione attuale.
In generale abbiamo visitato luoghi molto interessanti e monumenti bellissimi, fra cui:
- Lo Stupa di Boudhanath che è lo Stupa più grande al mondo dove sono teoricamente preservate le ossa di Bhudda, un luogo immenso di cui abbiamo colto la grandezza solo osservandolo
da una posizione sopraelevata.
- Il tempio induista più famoso della Città dove siamo giunti a sera con un'atmosfera molto marcata ed un'energia molto forte, pieno di caproni lasciati nel cortile come omaggio agli dei e statue a dir poco spaventose (mica tanto simpatici gli dei indù a vederli così).
- Il tempio di Pashupatinath che è spettacolare a dir poco dove abbiamo anche assistito al funerale di un importante militare con tanto di pira funebre e mio quasi svenimento.
- I sobborghi di Bhaktapur e Pathan con quelle atmosfere fuori dal mondo, le loro viuzze e le loro incrdibili Durbar Square. Sculture in Tek e pietra a dir poco incredibili, templi, torri, palazzi storici in ogni angolo.
L'impressione che ho avuto è di un'umanità che prima ha creato queste opere incredibili e bellissime e poi è decaduta (forse per il sovraffollamento ed il turismo) trasformando tutto in un immondezzaio turistico.
Rivedendo le foto, sono rimasto spesso a bocca aperta di fronte a certe opere chiedendomi come mai sul momento non avevo captato la loro energia... ma come potevamo ampliare i nostri sensi interiori se manco riuscivamo a fare una foto ad una statua senza avere nell'inquadratura almeno 20 persone schiamazzanti?
Troppa gente in generale e troppi turisti hanno rovinato l'atmosfera, troppa incuria ha reso molte opere dei semplici cessi per piccioni ed altri animali.
Noi non abbiamo visitato il Nepal, ma solo Kathmandu e devo dire che potrebbe essere un posto davvero incredibile, pazzesco e spirituale (come forse era negli anni '60), ma purtroppo
ora come ora è poco più di una semplice città orientale che brama all'occidente sporca, sovraffollata ed inquinata.
Veniamo ora alla sezione "Prodotti tipici".
La guida ci spiegò che erano solo 3 i veri prodotti tipici del Nepal: le campane tibetane (che si chiamano Tibetane ma sono state, a suo dire, inventate in Nepal),
Le sciarpe in cashmere ed i Mandala.
Visitammo i migliori e più originali (secondo la guida) laboratori di queste tre arti.
In effetti per raggiungere alcuni di questi laboratori dovemmo infilarci in viuzze strette e minimamente lontane dal flusso di turisti o richiedere l'ingresso alle zone riservate di certi negozi che da fuori sembravano dedicati solo al più becero turismo di massa, ma che all'interno erano un dedalo di stanze e microscopici laboratori.
Visitammo la scuola di mandala dove lavoravano 7 od 8 (non ricordo) dei 14 migliori maestri di mandala al mondo. Questi 14 erano uomini che avevano fatto il percorso sacro buddista ovvero erano stati 7 anni, 7 mesi, 7 giorni, 7 ore e 7 minuti rinchiusi in una stanza a meditare o fare mandala
e poi erano tornati alla vita "normale" diventano maestri in questa incredibile arte dove si arriva ad usare un singolo pelo di animale come pennello.
Inutile dire quanto siano incredibili e belli i mandala; osservandoli a lungo si viene rapiti e portati nei meandri del nostro spirito; non ci si stanca mai di guardarli, anzi, più li si guarda e più si è rapiti.
Esistono solo 8 tipi di mandala, 7 di origini mistiche e quindi perse nel tempo ed uno creato dal Dalai Lama per aiutare le persone a trovare serenità e ritrovare se stessi e la propria via (fu quello che acquistammo).
Visitammo un artigiano delle campane tibetane che ci fece provare gli effetti ed i suoni pazzeschi di questi oggetti. Campane costruite con i dettami sacri mediante l'unione di 7 metalli con una lavorazione molto particolare.
Potemmo anche ascoltare il suono di una "Campana della luna" ovvero di una campana tibetana lavorata solo durante la luna piena... e devo dire che il suono era ancora più pazzesco
di tutte le altre.
Come sempre cercammo una campana che "ci parlasse" per acquistarla e portarla via.
Visitammo diversi artigiani del cashmere.
Ci eravamo ripromessi quantomeno di resistere a quella spesa, ma alla fine io cedetti acquistando una sciarpa... ma chiunque, immergendo la faccia il quel tessuto così leggero, così morbido e così caldo si sarebbe fatto avvincere.
E come sono i Nepalesi?
A dir poco adorabili. Gentilissimi e sempre sorridenti.
Per le strade, quando suonavano continuamente il clacson, lo facevano solo per palesare la loro presenza ad aiutare i vicini a muoversi... non c'era cattiveria come nelle città occidentali... si suonavano e poi si sorridevano.
I venditori provavano sempre a vendere qualcosa, ma non erano mai insistenti e non si imbronciavano se non si comprava nulla.
E la religione?
Come ho già scritto le due religioni principali tendono a fondersi insieme.
Del buddhismo ho parlato ampiamente nel Gudu's nippo experience ed ancor più nel Gudu's Bhutan experience.
Questo è stato invece il mio primo approccio con l'induismo e, fra le statue paurose, i sacrifici animali ed i rumori che si sentono nelle zone di preghiera, devo dire che non ho provato molta simpatia per le loro usanze.
Ed il cibo nepalese?
Buono anche se molto "basic".
Una sera fummo portati in un ristorante tipico nepalese dove mangiammo quantità esagerate di cibo tipico osservando danzatrici di danze popolari esibirsi nelle danze tradizionali delle varie zone del Nepal.
Un cibo speziato, ma leggero... non molto ricercato e dai sapori diretti e genuini... un po' come i nepalesi. Molta verdura, molto riso e molte spezie.
Ebbi anche il piacere di provare un liquore locale di cui non ricordo ne il nome ne la composizione... molto slavato e con poco carattere, ma al momento "ci stava bene".
Temo di non avere altre cose da dire, lascio la parola alle fotografie.
Chissà... non ho provato simpatia per la città di Kathmandu, ma ho provato tantissima simpatia per i nepalesi.
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venerdì 31 luglio 2015
THE GUDU'S BHUTANESE EXPERIENCE PART 7 - TIGER NEST
Arriviamo così al racconto dell'ultimo giorno del nostro viaggio in Bhutan.
Ci siamo svegliati di buon'ora per intraprendere il trekking verso il Tiger Nest.
Due parole sul Tiger Nest, ma proprio solo due poiché c'è wikipedia per le informazioni tecniche.
Secondo tradizione, quando Guru Rimpoche (il secondo Buddha) arrivò in Bhutan per convertirlo, ci arrivò in groppa ad una tigre volante.
La prima cosa che fece fu andare a meditare in un anfratto di roccia sito su di un picco.
Li rimase per un bel po' di tempo e poi cominciò la sua opera di insegnamento del buddhismo.
Ovviamente l'anfratto divenne un luogo di culto e ci venne costruito un monastero: il monastero di Taktsang... uno dei 10 monasteri più irraggiungibili sulla faccia della terra.
Il percorso da Paro non era particolarmente difficile, un normale trekking di un'ora e mezza nel bel mezzo di bellissime foreste montane addobbate con bandiere di preghiera con 900 metri di dislivello per un'altitudine massima di 3200 m.
Ovviamente il percorso verso il Tiger Nest avrebbe dovuto essere un percorso soprattutto di stampo spirituale che avrebbe dovuto portare il pellegrino ad un innalzamento della propria spiritualità, non un mero esercizio fisico.
Se dovessi descrivere solo il percorso mi limiterei a dire che abbiamo camminato in mezzo ad una natura bellissima e selvaggia nutrendo i nostri occhi ed i nostri cuori con scorci e viste spettacolari.
La fotografie sicuramente renderanno l'idea meglio della descrizione, ma nemmeno loro potranno far capire cosa significa intraprendere un percorso spirituale.
I Bhutanesi facevano questo percorso molto spesso. Si saliva in silenzio oppure pregando od ancora cantando a bassa voce canzoni locali verso il monastero.
All'inizio del percorso c'erano parecchi di cani e la tradizione voleva che ogni gruppo venisse "adottato" da un cane, che lo avrebbe accompagnato fino alla cima; il suddetto cane era ovviamente spiritualmente legato al gruppo.
I turisti più beceri eseguivano il percorso a dorso di mulo, perdendosi il vero significato della camminata verso il Tiger Nest... fortunatamente erano pochi i turisti in generale (soprattutto indiani e nepalesi) e la percentuale di "beceri" non superava il 30%.
Noi arrivammo sul luogo di partenza del pellegrinaggio intorno alle 9.00 del mattino.
L'aria era frizzante e densa di energia.
Cominciammo la salita camminando lentamente e nutrendo i nostri occhi con la bellezza del luogo.
Dopo 10 minuti si aggiunse a noi un cane completamente nero che ci accompagnò per tutto il percorso.
In alcuni punti c'erano ruote di preghiera e noi le facevamo girare, in altri punti c'erano delle viste mozzafiato e noi ci fermavamo per fare delle foto.
La guida canticchiava e si guardava intorno. Alcuni gruppi di autoctoni ci superavano ed un paio si sono fermati a conversare con noi.
E' stato a dir poco incredibile, sentivo l'energia riempirmi e la pace raggiungermi.
Dopo circa due ore arrivammo su di un picco e ci trovammo il monastero di fronte... eravamo però sul picco sbagliato!
Il Tiger Nest si ergeva, aggrappato alla montagna, di fronte a noi. Fra noi e la nostra meta però c'era l'immenso dirupo che divideva i due picchi.
Fu a quel punto che scoprimmo che ci attendevano ancora i 720 scalini che ci avrebbero portati ad un ponte sul dirupo e poi al monastero.
Cominciammo la discesa della scalinata fino ad arrivare ad una piccola costruzione dove bruciavano un sacco di candele.
Erano candele di preghiera fatte col burro animale. Pagammo il dovuto per accenderne una che avrebbe bruciato per una settimana benedicendo noi, ma anche tutta la valle.
Continuammo la discesa fino a raggiungere un piccolo ponte sormontato da decine di bandiere di preghiera che andavano da un picco all'altro, c'erano anche piccoli incavi nella pietra pieni di piccole statue votive.
A quel punto una piccola scalinata in salita ci avrebbe portati alla nostra meta.
Per entrare fummo obbligati a posare gli zaini, tutti gli apparecchi elettrici ed anche le scarpe.
In inverno in quel punto dell'Himalaya a 3200 metri non faceva esageratamente freddo, ma nemmeno caldissimo... nonostante le calze termiche il freddo della pietra arrivava rapido ai piedi.
Visitammo tutte le sale aperte al pubblico e pregammo insieme alla gente del luogo, poi tornammo a riprendere la nostra roba. Ci volle in tutto poco meno di un'ora.
Al ritorno ci fermammo nuovamente nella zona delle candele per accendere la candela che durante la nostra visita al monastero era stata preparata e benedetta dal monaco.
Fu emozionante pensare che un pezzo di noi sarebbe rimasto in quel luogo magico ancora per una settimana.
Il monaco ci offrì the con latte e biscotti e noi accettammo volentieri.
Dopo la pausa cominciammo la discesa che percorremmo nella metà del tempo, quasi correndo tanto eravamo pieni di energia; ci fermammo solo per raccogliere un po' di terra locale come da nostra tradizione.
Tornati a Paro, ci fermammo in un ristorantino a mangiare e poi tornammo in albergo per riposarci.
Durante la discesa la guida ci chiese se volevamo fare un "Hot stone Bhutanese bath", ma di quelli veri, non quelli per turisti.
Ovviamente la risposta fu si. Ci sarebbero venuti a prendere nel tardo pomeriggio per quest'ultima esperienza bhutanese.
L'"Hot stone bath" constava nell'immersione in acqua calda riscaldata mediante pietre roventi; la pietra rovente buttata in acqua rilasciava sostanze naturali benefiche che, insieme al caldo intenso, avevano varie proprietà terapeutiche.
La guida ci portò in una specie di fattoria.
Fummo accolti con la solita cortesia e poi fummo accompagnati in una specie di piccolo capanno con le pareti alte solo due metri, un metro di vuoto e poi il tetto in legno.
La vista del capanno mi turbò un po' perché la temperatura esterna era di 5°C ed essendo il capannone sostanzialmente aperto, non potevamo aspettarci una temperatura migliore all'interno.
Su di un lato del capanno c'erano due uomini che prendevano pietre da un grosso falò e le buttavano in due grosse tinozze in legno che spuntavano dal muro.
In pratica le vasche di legno erano parzialmente dentro al capanno e parzialmente fuori, il foro del muro da cui uscivano era costruito in modo che dall'esterno non si potesse vedere dentro.
Ci fecero entrare, ci diedero la chiave della porta ed aggiunsero semplicemente di spogliarci e metterci nelle vasche.
Dopo qualche minuto di turbamento, presi coraggio e cominciai a spogliarmi.
Per non prendere troppo freddo, mi spogliai rapidamente e poi mi tuffai nella vasca... mi tuffai nella vasca per subito saltarne fuori urlando... l'acqua era caldissima.
Mi chiedevo come avrei fatto ad entrare in un'acqua così calda, ma poi quando la Vigi mi raggiunse, ci immergemmo piano piano, un pezzo per volta e riuscimmo nell'impresa.
L'acqua era profumata con artemisia e l'immersione era davvero ritemprante.
Il tempo di permanenza minimo per avere dei veri vantaggi era di 30 minuti, ma dopo 20 io stavo per svenire a causa dell'abbassamento di pressione e così dovetti attendere che la Vigi finisse il suo bagno fuori dall'acqua.
Che figura da cioccolataio! Altro che indomito avventuriero.
Dopo il bagno, i padroni della fattoria ci invitarono a cena e noi accettammo volentieri.
Fu così che potemmo godere di un vero pasto bhutanese.
Il cibo era il solito che avevamo già mangiato, ma si mangiava con le mani chiacchierando allegramente e ridendo spesso.
Fu un'esperienza davvero importante per me.
Durante la cena decidemmo che dovevamo concludere il nostro viaggio bevendo whiskey in un bar locale e fu così che dopo il pasto ci trasferimmo in un bar locale.
Il bar era una stanza grande circa 6 metri per 3 metri divisa in due.
Da un lato c'era l'oste (anzi l'ostessa poiché era una donna) che cucinava su di un bidone metallico piccoli stuzzichini.
Dall'altro lato c'erano i clienti. Siccome il bar poteva contenere non più di 10 persone, noi occupammo tutto lo spazio e cominciammo a bere e mangiare.
Il whisky locale era molto leggero, ma i bhutanesi lo bevevano misto al succo di frutta; la Vigi si adattò alle usanze, mentre io optai per il whisky liscio.
Mangiammo, bevemmo, ridemmo ed ancora mangiammo e bevemmo in amicizia.
Alla fine tutti i bhutanesi presenti erano alticci o proprio ubriachi; quello messo peggio era l'autista che a fine serata ci tradusse una canzone d'amore bhutanese trasmessa alla radio praticamente piangendo.
Quando uscimmo dal pub tutto era completamente buio, eravamo nella seconda città del Bhutan, ma non esisteva illuminazione notturna, fu "pittorescamente bellissimo" tornare all'albergo a piedi illuminati solo dalle stelle in quell'atmosfera di amicizia che si era creata.
Quell'uscita post-cena era stata la ciliegina sulla torta di una giornata e più in generale di un viaggio fantastico.
Il mattino successivo fummo accompagnati all'aeroporto e volammo via.
Mentre l'aereo eseguiva tutte le difficili virate in mezzo alle montagne, io osservavo dal finestrino il Bhutan che si allontanava con il cuore gonfio di malinconia.
Del Bhutan mi resteranno nel cuore molte cose: le persone estremamente spirituali, i paesaggi, le case, il canto del vento nelle valli, i templi ed in generale la sensazione di aver vissuto per un po' all'interno di una grande preghiera comune, non saprei come descrivere altrimenti la sensazione di pace, benessere e sicurezza che ho avuto durante tutto il viaggio.
E così anche questo viaggio l'ho messo nero su bianco in questo mio piccolo blog.
Fra due giorni io e la Vigi partiamo per la Cina del Sud alla ricerca di nuove esperienze, nuovi paesaggi, nuove emozioni.
Ci siamo svegliati di buon'ora per intraprendere il trekking verso il Tiger Nest.
Due parole sul Tiger Nest, ma proprio solo due poiché c'è wikipedia per le informazioni tecniche.
Secondo tradizione, quando Guru Rimpoche (il secondo Buddha) arrivò in Bhutan per convertirlo, ci arrivò in groppa ad una tigre volante.
La prima cosa che fece fu andare a meditare in un anfratto di roccia sito su di un picco.
Li rimase per un bel po' di tempo e poi cominciò la sua opera di insegnamento del buddhismo.
Ovviamente l'anfratto divenne un luogo di culto e ci venne costruito un monastero: il monastero di Taktsang... uno dei 10 monasteri più irraggiungibili sulla faccia della terra.
Il percorso da Paro non era particolarmente difficile, un normale trekking di un'ora e mezza nel bel mezzo di bellissime foreste montane addobbate con bandiere di preghiera con 900 metri di dislivello per un'altitudine massima di 3200 m.
Ovviamente il percorso verso il Tiger Nest avrebbe dovuto essere un percorso soprattutto di stampo spirituale che avrebbe dovuto portare il pellegrino ad un innalzamento della propria spiritualità, non un mero esercizio fisico.
Se dovessi descrivere solo il percorso mi limiterei a dire che abbiamo camminato in mezzo ad una natura bellissima e selvaggia nutrendo i nostri occhi ed i nostri cuori con scorci e viste spettacolari.
La fotografie sicuramente renderanno l'idea meglio della descrizione, ma nemmeno loro potranno far capire cosa significa intraprendere un percorso spirituale.
I Bhutanesi facevano questo percorso molto spesso. Si saliva in silenzio oppure pregando od ancora cantando a bassa voce canzoni locali verso il monastero.
All'inizio del percorso c'erano parecchi di cani e la tradizione voleva che ogni gruppo venisse "adottato" da un cane, che lo avrebbe accompagnato fino alla cima; il suddetto cane era ovviamente spiritualmente legato al gruppo.
I turisti più beceri eseguivano il percorso a dorso di mulo, perdendosi il vero significato della camminata verso il Tiger Nest... fortunatamente erano pochi i turisti in generale (soprattutto indiani e nepalesi) e la percentuale di "beceri" non superava il 30%.
Noi arrivammo sul luogo di partenza del pellegrinaggio intorno alle 9.00 del mattino.
L'aria era frizzante e densa di energia.
Cominciammo la salita camminando lentamente e nutrendo i nostri occhi con la bellezza del luogo.
Dopo 10 minuti si aggiunse a noi un cane completamente nero che ci accompagnò per tutto il percorso.
In alcuni punti c'erano ruote di preghiera e noi le facevamo girare, in altri punti c'erano delle viste mozzafiato e noi ci fermavamo per fare delle foto.
La guida canticchiava e si guardava intorno. Alcuni gruppi di autoctoni ci superavano ed un paio si sono fermati a conversare con noi.
E' stato a dir poco incredibile, sentivo l'energia riempirmi e la pace raggiungermi.
Dopo circa due ore arrivammo su di un picco e ci trovammo il monastero di fronte... eravamo però sul picco sbagliato!
Il Tiger Nest si ergeva, aggrappato alla montagna, di fronte a noi. Fra noi e la nostra meta però c'era l'immenso dirupo che divideva i due picchi.
Fu a quel punto che scoprimmo che ci attendevano ancora i 720 scalini che ci avrebbero portati ad un ponte sul dirupo e poi al monastero.
Cominciammo la discesa della scalinata fino ad arrivare ad una piccola costruzione dove bruciavano un sacco di candele.
Erano candele di preghiera fatte col burro animale. Pagammo il dovuto per accenderne una che avrebbe bruciato per una settimana benedicendo noi, ma anche tutta la valle.
Continuammo la discesa fino a raggiungere un piccolo ponte sormontato da decine di bandiere di preghiera che andavano da un picco all'altro, c'erano anche piccoli incavi nella pietra pieni di piccole statue votive.
A quel punto una piccola scalinata in salita ci avrebbe portati alla nostra meta.
Per entrare fummo obbligati a posare gli zaini, tutti gli apparecchi elettrici ed anche le scarpe.
In inverno in quel punto dell'Himalaya a 3200 metri non faceva esageratamente freddo, ma nemmeno caldissimo... nonostante le calze termiche il freddo della pietra arrivava rapido ai piedi.
Visitammo tutte le sale aperte al pubblico e pregammo insieme alla gente del luogo, poi tornammo a riprendere la nostra roba. Ci volle in tutto poco meno di un'ora.
Al ritorno ci fermammo nuovamente nella zona delle candele per accendere la candela che durante la nostra visita al monastero era stata preparata e benedetta dal monaco.
Fu emozionante pensare che un pezzo di noi sarebbe rimasto in quel luogo magico ancora per una settimana.
Il monaco ci offrì the con latte e biscotti e noi accettammo volentieri.
Dopo la pausa cominciammo la discesa che percorremmo nella metà del tempo, quasi correndo tanto eravamo pieni di energia; ci fermammo solo per raccogliere un po' di terra locale come da nostra tradizione.
Tornati a Paro, ci fermammo in un ristorantino a mangiare e poi tornammo in albergo per riposarci.
Durante la discesa la guida ci chiese se volevamo fare un "Hot stone Bhutanese bath", ma di quelli veri, non quelli per turisti.
Ovviamente la risposta fu si. Ci sarebbero venuti a prendere nel tardo pomeriggio per quest'ultima esperienza bhutanese.
L'"Hot stone bath" constava nell'immersione in acqua calda riscaldata mediante pietre roventi; la pietra rovente buttata in acqua rilasciava sostanze naturali benefiche che, insieme al caldo intenso, avevano varie proprietà terapeutiche.
La guida ci portò in una specie di fattoria.
Fummo accolti con la solita cortesia e poi fummo accompagnati in una specie di piccolo capanno con le pareti alte solo due metri, un metro di vuoto e poi il tetto in legno.
La vista del capanno mi turbò un po' perché la temperatura esterna era di 5°C ed essendo il capannone sostanzialmente aperto, non potevamo aspettarci una temperatura migliore all'interno.
Su di un lato del capanno c'erano due uomini che prendevano pietre da un grosso falò e le buttavano in due grosse tinozze in legno che spuntavano dal muro.
In pratica le vasche di legno erano parzialmente dentro al capanno e parzialmente fuori, il foro del muro da cui uscivano era costruito in modo che dall'esterno non si potesse vedere dentro.
Ci fecero entrare, ci diedero la chiave della porta ed aggiunsero semplicemente di spogliarci e metterci nelle vasche.
Dopo qualche minuto di turbamento, presi coraggio e cominciai a spogliarmi.
Per non prendere troppo freddo, mi spogliai rapidamente e poi mi tuffai nella vasca... mi tuffai nella vasca per subito saltarne fuori urlando... l'acqua era caldissima.
Mi chiedevo come avrei fatto ad entrare in un'acqua così calda, ma poi quando la Vigi mi raggiunse, ci immergemmo piano piano, un pezzo per volta e riuscimmo nell'impresa.
L'acqua era profumata con artemisia e l'immersione era davvero ritemprante.
Il tempo di permanenza minimo per avere dei veri vantaggi era di 30 minuti, ma dopo 20 io stavo per svenire a causa dell'abbassamento di pressione e così dovetti attendere che la Vigi finisse il suo bagno fuori dall'acqua.
Che figura da cioccolataio! Altro che indomito avventuriero.
Dopo il bagno, i padroni della fattoria ci invitarono a cena e noi accettammo volentieri.
Fu così che potemmo godere di un vero pasto bhutanese.
Il cibo era il solito che avevamo già mangiato, ma si mangiava con le mani chiacchierando allegramente e ridendo spesso.
Fu un'esperienza davvero importante per me.
Durante la cena decidemmo che dovevamo concludere il nostro viaggio bevendo whiskey in un bar locale e fu così che dopo il pasto ci trasferimmo in un bar locale.
Il bar era una stanza grande circa 6 metri per 3 metri divisa in due.
Da un lato c'era l'oste (anzi l'ostessa poiché era una donna) che cucinava su di un bidone metallico piccoli stuzzichini.
Dall'altro lato c'erano i clienti. Siccome il bar poteva contenere non più di 10 persone, noi occupammo tutto lo spazio e cominciammo a bere e mangiare.
Il whisky locale era molto leggero, ma i bhutanesi lo bevevano misto al succo di frutta; la Vigi si adattò alle usanze, mentre io optai per il whisky liscio.
Mangiammo, bevemmo, ridemmo ed ancora mangiammo e bevemmo in amicizia.
Alla fine tutti i bhutanesi presenti erano alticci o proprio ubriachi; quello messo peggio era l'autista che a fine serata ci tradusse una canzone d'amore bhutanese trasmessa alla radio praticamente piangendo.
Quando uscimmo dal pub tutto era completamente buio, eravamo nella seconda città del Bhutan, ma non esisteva illuminazione notturna, fu "pittorescamente bellissimo" tornare all'albergo a piedi illuminati solo dalle stelle in quell'atmosfera di amicizia che si era creata.
Quell'uscita post-cena era stata la ciliegina sulla torta di una giornata e più in generale di un viaggio fantastico.
Il mattino successivo fummo accompagnati all'aeroporto e volammo via.
Mentre l'aereo eseguiva tutte le difficili virate in mezzo alle montagne, io osservavo dal finestrino il Bhutan che si allontanava con il cuore gonfio di malinconia.
Del Bhutan mi resteranno nel cuore molte cose: le persone estremamente spirituali, i paesaggi, le case, il canto del vento nelle valli, i templi ed in generale la sensazione di aver vissuto per un po' all'interno di una grande preghiera comune, non saprei come descrivere altrimenti la sensazione di pace, benessere e sicurezza che ho avuto durante tutto il viaggio.
E così anche questo viaggio l'ho messo nero su bianco in questo mio piccolo blog.
Fra due giorni io e la Vigi partiamo per la Cina del Sud alla ricerca di nuove esperienze, nuovi paesaggi, nuove emozioni.
giovedì 16 luglio 2015
THE GUDU'S BHUTANESE EXPERIENCE PART 6 - VERSO PARO
Accidenti devo essere svelto a concludere questo diario di viaggio perchè mancano solo più 15 giorni esatti alla nostra partenza per la Cina.
Del giorno successivo ci sono poche cose da raccontare.
Partimmo presto la mattina alla volta di Paro sperando di evitare i blocchi sulle strade montane, ma fummo sfortunati.
Arrivati ai piedi del secondo blocco, nei pressi in un piccolo villaggetto, trovammo la strada chiusa e già una immensa fila di auto e camion fermi un po' ovunque.
L'autista aveva guidato come un pazzo per le strade montane sperando di evitare i blocchi ed io avevo sofferto un po' il mal d'auto, così scesi dall'auto e mi sdraiai su di un muretto quasi senza far caso a ciò che avevo intorno.
Non mi ero accorto che ci eravamo fermati quasi nel mezzo del coloratissimo mercato del villaggio.
A noi il villaggio sembrava piccolo, ma probabilmente era il punto di riferimento della zona poichè il mercato era parecchio frequentato e ci si poteva trovare di tutto, dalle sementi agli attrezzi da cucina.
Era tutto un brulicare di persone che si muovevano fra i banchetti osservando e comprando.
Sicuramente i blocchi stradali portavano un sacco di clienti al mercato, infatti molta gente scendeva dai mezzi per andare a comprare un dolce, un frutto od anche un attrezzo.
Io rimasi sdraiato sul muretto mentre la Vigi e la guida andarono a comprarsi un dolce locale in una piccola panetteria.
Nonostante il disagio gastrico, fu una piacevole sosta.
Il mercato brulicava di attività e si poteva godere di un bellissmo scorcio di vita buthanese.
Mangiammo pranzo in una locanda e bivaccammo in attesa dell'apertura del passo fino alle 15.30.
Due ora dopo eravamo di nuovo fermi al blocco successivo, quello che portava al passo di Dochu-la.
Io rimasi in auto a sonnecchiare, l'autista scese a prendere il the in strada con dei camionisti mentre Virgi e la guida decisero di raggiungere il passo a piedi visto che distava solo 6 Km.
Dopo circa due ore il blocco fu tolto ed io e l'autista raggiungemmo in breve tempo il passo.
Questa volta il cielo era plumbeo ed il vento tagliente, così io e l'autista decidemmo di rifugiarci nell'unica locanda presente in cima al passo.
La locanda era quasi deserta ed ovviamente io ero l'unico occidentale.
Ci fecero accomodare di fronte ad una delle tipiche stufe buthanesi che avevamo incontrato un po' ovunque e ci diedero the e crackers.
Dopo qualche minuto arrivarono anche la guida e Virgi rossi in viso per lo sforzo ed il freddo.
Restammo al riparo per circa mezz'ora poi decidemmo di ripartire.
Rimasi stupito quando mi dissero che non dovevo pagare nulla... the e cracker facevano parte della sacra ospitalità.
Queste sono le piccole cose che fanno la differenza fra un popolo davvero civile ed uno incivile.
Senza pensare al guadagno o a fregare il turista, mi fu fornita ospitalità.
L'ospitalità è sacra in Buthan; l'ospitalità ai templi, l'ospitalità nelle case e l'ospitalità perfino negli esercizi commerciali.
Inutile dire che rimasi molto molto colpito.
Arrivammo a Paro nel tardo pomeriggio e rimase solo il tempo per visitare il museo dedicato alle maschere rituali buthanesi.
A vederle non avevano nulla di particolare, ma a conoscere i significati ed i personaggi ritratti sembravano animarsi di energie sovrannaturali e mistiche.
Poco prima di cena arrivammo al nostro albergo.
L'albergo era stata la residenza politica importante fino a pochi anni prima ed esteticamente era bellissimo, oltre ad essere labirintico quasi come il castello di Hogwarts.
Unico neo fu l'impianto di riscaldamento insufficiente, ma le coperte erano pesanti e noi eravamo belli stanchi.
Mangiammo una cena frugale e poi andammo a letto.
Il giorno dopo ci aspettava l'impresa: il trekking fino al Tiger Nest, la meta che io aspettavo fin dall'inizio del viaggio.
Del giorno successivo ci sono poche cose da raccontare.
Partimmo presto la mattina alla volta di Paro sperando di evitare i blocchi sulle strade montane, ma fummo sfortunati.
Arrivati ai piedi del secondo blocco, nei pressi in un piccolo villaggetto, trovammo la strada chiusa e già una immensa fila di auto e camion fermi un po' ovunque.
L'autista aveva guidato come un pazzo per le strade montane sperando di evitare i blocchi ed io avevo sofferto un po' il mal d'auto, così scesi dall'auto e mi sdraiai su di un muretto quasi senza far caso a ciò che avevo intorno.
Non mi ero accorto che ci eravamo fermati quasi nel mezzo del coloratissimo mercato del villaggio.
A noi il villaggio sembrava piccolo, ma probabilmente era il punto di riferimento della zona poichè il mercato era parecchio frequentato e ci si poteva trovare di tutto, dalle sementi agli attrezzi da cucina.
Era tutto un brulicare di persone che si muovevano fra i banchetti osservando e comprando.
Sicuramente i blocchi stradali portavano un sacco di clienti al mercato, infatti molta gente scendeva dai mezzi per andare a comprare un dolce, un frutto od anche un attrezzo.
Io rimasi sdraiato sul muretto mentre la Vigi e la guida andarono a comprarsi un dolce locale in una piccola panetteria.
Nonostante il disagio gastrico, fu una piacevole sosta.
Il mercato brulicava di attività e si poteva godere di un bellissmo scorcio di vita buthanese.
Mangiammo pranzo in una locanda e bivaccammo in attesa dell'apertura del passo fino alle 15.30.
Due ora dopo eravamo di nuovo fermi al blocco successivo, quello che portava al passo di Dochu-la.
Io rimasi in auto a sonnecchiare, l'autista scese a prendere il the in strada con dei camionisti mentre Virgi e la guida decisero di raggiungere il passo a piedi visto che distava solo 6 Km.
Dopo circa due ore il blocco fu tolto ed io e l'autista raggiungemmo in breve tempo il passo.
Questa volta il cielo era plumbeo ed il vento tagliente, così io e l'autista decidemmo di rifugiarci nell'unica locanda presente in cima al passo.
La locanda era quasi deserta ed ovviamente io ero l'unico occidentale.
Ci fecero accomodare di fronte ad una delle tipiche stufe buthanesi che avevamo incontrato un po' ovunque e ci diedero the e crackers.
Dopo qualche minuto arrivarono anche la guida e Virgi rossi in viso per lo sforzo ed il freddo.
Restammo al riparo per circa mezz'ora poi decidemmo di ripartire.
Rimasi stupito quando mi dissero che non dovevo pagare nulla... the e cracker facevano parte della sacra ospitalità.
Queste sono le piccole cose che fanno la differenza fra un popolo davvero civile ed uno incivile.
Senza pensare al guadagno o a fregare il turista, mi fu fornita ospitalità.
L'ospitalità è sacra in Buthan; l'ospitalità ai templi, l'ospitalità nelle case e l'ospitalità perfino negli esercizi commerciali.
Inutile dire che rimasi molto molto colpito.
Arrivammo a Paro nel tardo pomeriggio e rimase solo il tempo per visitare il museo dedicato alle maschere rituali buthanesi.
A vederle non avevano nulla di particolare, ma a conoscere i significati ed i personaggi ritratti sembravano animarsi di energie sovrannaturali e mistiche.
Poco prima di cena arrivammo al nostro albergo.
L'albergo era stata la residenza politica importante fino a pochi anni prima ed esteticamente era bellissimo, oltre ad essere labirintico quasi come il castello di Hogwarts.
Unico neo fu l'impianto di riscaldamento insufficiente, ma le coperte erano pesanti e noi eravamo belli stanchi.
Mangiammo una cena frugale e poi andammo a letto.
Il giorno dopo ci aspettava l'impresa: il trekking fino al Tiger Nest, la meta che io aspettavo fin dall'inizio del viaggio.
sabato 13 giugno 2015
THE GUDU'S BHUTANESE EXPERIENCE PART 5 - PHOBJIKHA VALLEY
Quella mattina ci alzammo intirizziti dalla temperatura bassa; infatti nella notte la temperatura era scesa di molto, tant'è che le nostre bocche facevano nuvolette di fumo.
Fu un piacere quindi entrare nella camera comune per fare colazione.; lì la temperatura era bassa, ma non così bassa ed il cibo caldo (ma soprattutto il tè bollente) era un gran piacere.
Alle 9 eravamo pronti per affrontare l'escursione che ci avrebbe portati a visitare la valle ed a scoprire gli stormi di gru dal collo nero.
La temperatura era intorno ai 5° C ed il cielo e basso e plumbeo.
L'atmosfera era totalmente diversa da quella dalla mattina precedente, ma altrettanto magica.
Ci incamminammo per la valle camminando lentamente e discorrendo con la guida.
Il fondo della valle era sostanzialmente un immenso acquitrino dove pascolavano mucche, yak e dove svernavano le gru dal collo nero.
Per non sprofondare nel fango, spesso era necessario inventarsi improbabili percorsi su tronchi di albero. Non capivo se quei tronchi erano li per caso o se erano stati posizionati dagli abitanti del luogo. Noi in ogni caso ci divertivamo tantissimo a fare questo percorso ed a prenderci in giro quando mettevamo il piede in fallo finendo nel fango.
Dovemmo anche attraversale un piccolo torrente passando in equilibrio su di un vecchio tubo in acciaio, momento mitico in cui il nostro "duro e puro" autista entrò nell'acqua in infradito (ebbene si, noi eravamo attrezzatissimi mentre lui faceva trekking in infradito) per prenderci al volo nel caso fossimo caduti... fu una cosa molto pittoresca.
Durante il tragitto verso la zona in cui già si intravvedevano le gru, incontrammo parecchie ossa di mucca; la guida ci spiego che la notte il leopardo delle nevi scendeva a caccia e quelli erano i resti dei suoi banchetti. Le mucche che pascolavano qua e là erano dei monaci buddisti che le lasciavano gironzolare a disposizione della gente (presumo per il latte) e per il leopardo era un pasto facile.
Giusto qualche settimana prima avevo visto il film "I sogni segreti di Walter Mitty" dove il protagonista era finito in posti remotissimi proprio per vedere quell'animale ed ora io stavo passeggiando nel suo territorio di caccia... in effetti il luogo era remoto.
In poco tempo arrivammo in un punto dove era possibile ammirare le gru dal collo nero.
Le gru erano molto belle ed aggraziate e stavano in piccoli gruppi di 3-5 elementi, la guida ci spiegò che le Gru dal collo nero formano delle famiglie proprio come gli umani ed ogni gruppo rappresentava una famiglia.
Facemmo molte foto e ci godemmo il fatto di essere di fronte ad animali in via di estinzione quasi impossibili da vedere se non in quella valle.
La cosa che, come sempre, mi colpiva e mi faceva stare bene era l'atmosfera.
Un'atmosfere remota di pace totale.
Si sentiva solo il rumore del vento ed i rari versi di qualche gru che riecheggiano nella valle creando una sensazione di piacevole smarrimento ed isolamento.
Dopo un po' cominciammo a salire verso le alture in cerca di una fattoria conosciuta alla guida, con un po' di fortuna ci avrebbero offerto ospitalità ed avremmo potuto vedere dall'interno una fattoria bhutanese.
La salita fu dura, ma non troppo lunga. Non so a che altitudine arrivammo, potevano essere 2800 come 3000 metri. So solo che ad un certo punto sbucò un gruppo di piccoli edifici sulla cima di un altura.
La fattoria non era proprio come le fattorie a cui eravamo abituati: quasi nessun animale (forse erano al pascolo) e la zona coltivata era minima e non dava la sensazione di essere molto redditizia.
Era proprio una fattoria da confini del mondo.
Fummo invitati ad entrare dagli anziani che erano gli unici in casa.
In Bhutan la tradizione voleva che quando due giovani si sposavano, non andassero a vivere da soli, ma si unissero ad uno dei nuclei familiari già esistenti e, se era il caso, la casa venisse allargata.
In questo modo gli anziani venivano accuditi ed avevano comunque l'utile ruolo di badare alla casa.
Nonostante fossimo in una zona remota ed in una piccola e povera fattoria, la casa era decorata finemente e con attenzione e dotata ovviamente di più bandiere di preghiera come da tradizione.
Salimmo una ripidissima scala per raggiungere l'interno.
Fummo fatti accomodare per terra su di un tappeto in cucina.
Scoprimmo subito che per scaldarsi avevano lo stesso tipo di stufa che avevamo noi al resort e che alle finestre non avevano vetri, ma solo pannelli scorrevoli in legno.
Ci fu offerto del tè e del cibo e poi io colsi l'occasione per provare il loro vino e la loro grappa fatta in casa. Erano alcolici molto blandi tratti dalla fermentazione di prodotti locali che di sicuro non erano uva.
La conversazione con i padroni di casa era difficile poichè loro erano molto timidi e quindi ci limitammo alle domande di rito ed a discorsi generici.
Quando ci fummo rifocillati, chiedemmo di poter pregare insieme nella stanza delle preghiere.
Ogni casa ha una stanza delle preghiere con un altare scolpito a mano.
Quello presente in quella casa era da togliere il fiato: finemente scolpito e colorato con mille comparti di cui ignoravo l'uso.
Pregammo insieme, poi lasciammo un'offerta in denaro ai padroni di casa come da consuetudine e ce ne andammo per la nostra strada.
Intorno alle 12.00 tornammo nella zona abitata dove ci fermammo in una piccola e deserta locanda per pranzare.
La temperatura era ovviamente bassissima nonostante la omnipresente ed omniinsufficiente stufa a legna, ma ci scaldammo col tè bollente come sempre.
Il cibo era suppergiù lo stesso degli altri giorni: c'era della carne bovina stufata, verdure varie stufate o cucinate in modo simile ed il mitico mandarino gigante che arrivava puntuale alla fine di ogni pasto bhutanese. Il cibo era appena tiepido, ma era buono e sapeva di sano.
Nel pomeriggio abbiamo visitato il centro di osservazione delle gru dal collo nero che non era niente di più che un desolato casotto dove ci fecero vedere un filmato sulle danze ispirate alle gru e poco altro... diciamo che abbiamo fatto una pausa post pranzo veloce per iscriverci all'associazione per la tutela delle gru dal collo nero e va bene così.
Nel pomeriggio l'autista tornò al resort (temo avesse un principio di congelamento ai piedi) e noi continuammo ad esplorare la valle con la guida.
Nella parte bassa della valle c'erano dei gruppi di fattorie costruite in stile tipico, scovammo anche un emporio "vendodituttounpoperchècisonosoloio" di quelli che pensavamo esistessero solo nei film.
L'atmosfera era sempre pacifica, desolata, silenziosa.
Era un luogo dove era facile meditare, pregare o semplicemente parlare con la propria anima.
Camminammo fino a sera senza fermarci, scoprendo scorci fantastici come piccoli monasteri spazzati dal vento, stupa solitari in cima ad alture, scorci di natura, vento, erba e silenzio.
Arrivammo al resort che era oramai buio ed eravamo stanchi ed estasiati.
La nostra guida aveva dimenticato gli scarponi a casa e dopo aver camminato tutti i giorni su e giù per acquitrini, salite scoscese ed altipiani... e soprattutto dopo essere finito nell'acqua... aveva i piedi un po' provati dall'esperienza.
Cercammo di far salire la temperatura della stanza il più possibile per fare la doccia, ma fu comunque un'azione "difficile".
Dopo la doccia andammo a cenare e subito dopo cena crollammo felici sul letto.
Temo di non essere in grado (se mai fosse possibile) di descrivere quello che ho visto, quello che ho provato, quello che ho respirato durante quella giornata.
Questi momenti lontani dall'umanità che è oramai un'infestante su questo bel pianeta permettono di respirare davvero e di ritrovare se stessi ed il proprio posto nella natura.
Sono le stesse sensazioni che avevo provato nel deserto del Nabib nel 2011 od una sera in un tempio Scintoista in mezzo alla foresta di Bambù di Kyoto nel 2013.
Sono momenti di scoperta e quasi risveglio, momenti che commuovono tanto sono intensi, profondi e veri; così tanto da renderli a volte difficili da gestire.
Sono momenti che ci avvicinano a quella sacralità, serenità e completezza che in segreto tutti i giorni cerchiamo... spesso invano.
Per questo sono certo di non essere in grado di descrivere cosa significasse essere nella Phobjikha valley, con il cielo plumbeo sopra, l'erba scura sotto ed il vento che cantava canzoni che avrei voluto ascoltare ancora, ancora ed ancora.
Fu un piacere quindi entrare nella camera comune per fare colazione.; lì la temperatura era bassa, ma non così bassa ed il cibo caldo (ma soprattutto il tè bollente) era un gran piacere.
Alle 9 eravamo pronti per affrontare l'escursione che ci avrebbe portati a visitare la valle ed a scoprire gli stormi di gru dal collo nero.
La temperatura era intorno ai 5° C ed il cielo e basso e plumbeo.
L'atmosfera era totalmente diversa da quella dalla mattina precedente, ma altrettanto magica.
Ci incamminammo per la valle camminando lentamente e discorrendo con la guida.
Il fondo della valle era sostanzialmente un immenso acquitrino dove pascolavano mucche, yak e dove svernavano le gru dal collo nero.
Per non sprofondare nel fango, spesso era necessario inventarsi improbabili percorsi su tronchi di albero. Non capivo se quei tronchi erano li per caso o se erano stati posizionati dagli abitanti del luogo. Noi in ogni caso ci divertivamo tantissimo a fare questo percorso ed a prenderci in giro quando mettevamo il piede in fallo finendo nel fango.
Dovemmo anche attraversale un piccolo torrente passando in equilibrio su di un vecchio tubo in acciaio, momento mitico in cui il nostro "duro e puro" autista entrò nell'acqua in infradito (ebbene si, noi eravamo attrezzatissimi mentre lui faceva trekking in infradito) per prenderci al volo nel caso fossimo caduti... fu una cosa molto pittoresca.
Durante il tragitto verso la zona in cui già si intravvedevano le gru, incontrammo parecchie ossa di mucca; la guida ci spiego che la notte il leopardo delle nevi scendeva a caccia e quelli erano i resti dei suoi banchetti. Le mucche che pascolavano qua e là erano dei monaci buddisti che le lasciavano gironzolare a disposizione della gente (presumo per il latte) e per il leopardo era un pasto facile.
Giusto qualche settimana prima avevo visto il film "I sogni segreti di Walter Mitty" dove il protagonista era finito in posti remotissimi proprio per vedere quell'animale ed ora io stavo passeggiando nel suo territorio di caccia... in effetti il luogo era remoto.
In poco tempo arrivammo in un punto dove era possibile ammirare le gru dal collo nero.
Le gru erano molto belle ed aggraziate e stavano in piccoli gruppi di 3-5 elementi, la guida ci spiegò che le Gru dal collo nero formano delle famiglie proprio come gli umani ed ogni gruppo rappresentava una famiglia.
Facemmo molte foto e ci godemmo il fatto di essere di fronte ad animali in via di estinzione quasi impossibili da vedere se non in quella valle.
La cosa che, come sempre, mi colpiva e mi faceva stare bene era l'atmosfera.
Un'atmosfere remota di pace totale.
Si sentiva solo il rumore del vento ed i rari versi di qualche gru che riecheggiano nella valle creando una sensazione di piacevole smarrimento ed isolamento.
Dopo un po' cominciammo a salire verso le alture in cerca di una fattoria conosciuta alla guida, con un po' di fortuna ci avrebbero offerto ospitalità ed avremmo potuto vedere dall'interno una fattoria bhutanese.
La salita fu dura, ma non troppo lunga. Non so a che altitudine arrivammo, potevano essere 2800 come 3000 metri. So solo che ad un certo punto sbucò un gruppo di piccoli edifici sulla cima di un altura.
La fattoria non era proprio come le fattorie a cui eravamo abituati: quasi nessun animale (forse erano al pascolo) e la zona coltivata era minima e non dava la sensazione di essere molto redditizia.
Era proprio una fattoria da confini del mondo.
Fummo invitati ad entrare dagli anziani che erano gli unici in casa.
In Bhutan la tradizione voleva che quando due giovani si sposavano, non andassero a vivere da soli, ma si unissero ad uno dei nuclei familiari già esistenti e, se era il caso, la casa venisse allargata.
In questo modo gli anziani venivano accuditi ed avevano comunque l'utile ruolo di badare alla casa.
Nonostante fossimo in una zona remota ed in una piccola e povera fattoria, la casa era decorata finemente e con attenzione e dotata ovviamente di più bandiere di preghiera come da tradizione.
Salimmo una ripidissima scala per raggiungere l'interno.
Fummo fatti accomodare per terra su di un tappeto in cucina.
Scoprimmo subito che per scaldarsi avevano lo stesso tipo di stufa che avevamo noi al resort e che alle finestre non avevano vetri, ma solo pannelli scorrevoli in legno.
Ci fu offerto del tè e del cibo e poi io colsi l'occasione per provare il loro vino e la loro grappa fatta in casa. Erano alcolici molto blandi tratti dalla fermentazione di prodotti locali che di sicuro non erano uva.
La conversazione con i padroni di casa era difficile poichè loro erano molto timidi e quindi ci limitammo alle domande di rito ed a discorsi generici.
Quando ci fummo rifocillati, chiedemmo di poter pregare insieme nella stanza delle preghiere.
Ogni casa ha una stanza delle preghiere con un altare scolpito a mano.
Quello presente in quella casa era da togliere il fiato: finemente scolpito e colorato con mille comparti di cui ignoravo l'uso.
Pregammo insieme, poi lasciammo un'offerta in denaro ai padroni di casa come da consuetudine e ce ne andammo per la nostra strada.
Intorno alle 12.00 tornammo nella zona abitata dove ci fermammo in una piccola e deserta locanda per pranzare.
La temperatura era ovviamente bassissima nonostante la omnipresente ed omniinsufficiente stufa a legna, ma ci scaldammo col tè bollente come sempre.
Il cibo era suppergiù lo stesso degli altri giorni: c'era della carne bovina stufata, verdure varie stufate o cucinate in modo simile ed il mitico mandarino gigante che arrivava puntuale alla fine di ogni pasto bhutanese. Il cibo era appena tiepido, ma era buono e sapeva di sano.
Nel pomeriggio abbiamo visitato il centro di osservazione delle gru dal collo nero che non era niente di più che un desolato casotto dove ci fecero vedere un filmato sulle danze ispirate alle gru e poco altro... diciamo che abbiamo fatto una pausa post pranzo veloce per iscriverci all'associazione per la tutela delle gru dal collo nero e va bene così.
Nel pomeriggio l'autista tornò al resort (temo avesse un principio di congelamento ai piedi) e noi continuammo ad esplorare la valle con la guida.
Nella parte bassa della valle c'erano dei gruppi di fattorie costruite in stile tipico, scovammo anche un emporio "vendodituttounpoperchècisonosoloio" di quelli che pensavamo esistessero solo nei film.
L'atmosfera era sempre pacifica, desolata, silenziosa.
Era un luogo dove era facile meditare, pregare o semplicemente parlare con la propria anima.
Camminammo fino a sera senza fermarci, scoprendo scorci fantastici come piccoli monasteri spazzati dal vento, stupa solitari in cima ad alture, scorci di natura, vento, erba e silenzio.
Arrivammo al resort che era oramai buio ed eravamo stanchi ed estasiati.
La nostra guida aveva dimenticato gli scarponi a casa e dopo aver camminato tutti i giorni su e giù per acquitrini, salite scoscese ed altipiani... e soprattutto dopo essere finito nell'acqua... aveva i piedi un po' provati dall'esperienza.
Cercammo di far salire la temperatura della stanza il più possibile per fare la doccia, ma fu comunque un'azione "difficile".
Dopo la doccia andammo a cenare e subito dopo cena crollammo felici sul letto.
Temo di non essere in grado (se mai fosse possibile) di descrivere quello che ho visto, quello che ho provato, quello che ho respirato durante quella giornata.
Questi momenti lontani dall'umanità che è oramai un'infestante su questo bel pianeta permettono di respirare davvero e di ritrovare se stessi ed il proprio posto nella natura.
Sono le stesse sensazioni che avevo provato nel deserto del Nabib nel 2011 od una sera in un tempio Scintoista in mezzo alla foresta di Bambù di Kyoto nel 2013.
Sono momenti di scoperta e quasi risveglio, momenti che commuovono tanto sono intensi, profondi e veri; così tanto da renderli a volte difficili da gestire.
Sono momenti che ci avvicinano a quella sacralità, serenità e completezza che in segreto tutti i giorni cerchiamo... spesso invano.
Per questo sono certo di non essere in grado di descrivere cosa significasse essere nella Phobjikha valley, con il cielo plumbeo sopra, l'erba scura sotto ed il vento che cantava canzoni che avrei voluto ascoltare ancora, ancora ed ancora.
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